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Venti su un autocarro

€16.00

Guido Strumia

pp. 168

Marzo 2017

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Descrizione prodotto

DALLA PREFAZIONE (di Giacinto Reale)

 

Credo si possa dire che il titolo di questo bel libro di memorie squadriste in forma di romanzo rappresenti, in due parole, la sintesi di gran parte di ciò che fu lo squadrismo.

Innanzitutto il riferimento al numero (“venti”) che rispecchia la realtà delle squadre e l’orgoglio di essere “minoranza rumorosa” (così si definirono gli squadristi veneziani), contro una maggioranza vile ed un nemico numericamente più consistente, ma vile anch’esso. Orgoglio destinato a durare nel tempo, tra i “veri” squadristi di allora, come il Capitano degli Arditi, decorato, Piero Bolzon:

«Noi, quelli che veramente abbiamo fatto la rivoluzione, ci parlavamo, un tempo, occhi negli occhi, alla brava, secondo una costumanza che battezzavamo per “menefreghista”; né conoscevamo la carezza ai grami cittadini per viltà, né il sistema della pedata per irriconoscenza congenita…».

Ecco perché da quell’arditesca pattuglia, a suo modo elitaria, resteranno esclusi, nonostante i tanti tentativi di intrusione, i “finti” squadristi (c’erano anche quelli!) fustigati da un altro che c’era, fiumano, segretario del fascio di Sesto S. Giovanni, dirigente delle Avanguardie giovanili, pluriferito e incarcerato, Asvero Gravelli:

«Perché noi imparammo questo: “che fascisti si nasce e non si diventa”. Così, queste pagine sono nate fasciste, e sono squadriste per eccellenza, e non si confondono con altre terminologie, anche se c’è molta gente che, per il solo fatto di aver appartenuto ad una squadra ginnastica, si arroga il diritto di definirsi “squadrista”».

Orgoglio che si conserverà nel tempo, nella scia del testamento spirituale che, quasi presago del triste destino che lo attendeva, il ventunenne Ischiras Calamai, poi ucciso a Santa Lucia di Prato il 13 febbraio del 1922, aveva scritto pochi giorni prima di morire:

«Il sentirmi solo mi piace e mi inorgoglisce. Mi possono uccidere, se vogliono. Ma anche dopo morto costerò sempre più io di loro».

Tornando alle squadre e volendo cercare precedenti illustri, non si può non ricordare che ventuno furono i componenti della Disperata fiorentina (qui la doppia suggestione dannunziano-fiumana è evidente) e venti quelli della Celibano di Ferrara (Mussolini, che chiese di farne parte, ottenne solo la tessera numero 21), forse le due più famose squadre d’azione della primavera squadrista.

Vi è poi, nel titolo, quel “camion”, che altri non è che il 18 BL, essenziale per l’azione (anche se non mancano esempi di spedizioni organizzate in treno o, addirittura, in bicicletta) e la cui presenza in squadra è benvenuta da tutti, come, con la solita ironia tutta toscana, testimonia Piazzesi:

«Ora ci siamo motorizzati, e presso varie ditte sono stati prelevati una dozzina di camion che vengono messi a disposizione delle squadre.

“E si potrà anche morire, ma senza che dolgano i piedi” dice il Mago, e la misura del prelievo riscuote la massima approvazione».

In una quasi magica trasformazione, il mezzo diventa persona, così come avviene per qualche rara mitragliatrice addirittura battezzata affettuosamente con nomi femminili, come “la Gaetana” della Disperata fiorentina. Vecchi camion spesso residuati di guerra in condizioni appena passabili, o frutto di un prestito forzoso da parte di società di autotrasporti o ditte private e qualche “Mod 14” o Schwarzlose arrivata fortunosamente da Fiume o acquistata sottobanco dai cercatori di residuati bellici tra le vecchie trincee. Per andare all’assalto dei muniti fortilizi sovversivi bastano e avanzano.

Le rievocazioni che, nostalgicamente, negli anni successivi si succederanno del fidato compagno a quattro ruote sono più d’una, e “18 BL” si chiamerà lo spettacolo teatrale, diretto da Blasetti e tenuto in riva all’Arno nel 1934, che voleva rappresentare il più autentico esempio di “teatro di massa” fascista, con ben tremila attori e figuranti in scena. Il ricordo più bello, però, resta quello di Mino Maccari, squadrista e “ferito per la Rivoluzione”:

«Dalla fine del ‘20 a tutto il ‘22, furono di gran moda in Italia, specie fra la gioventù, alcuni oggetti caduti ormai totalmente in disuso. Fra essi, si notava un macchinone fragoroso, a nome camion, che nulla potrebbe avere a che fare con l’odierna buicche.

Capace di contenere una quantità immensa di gente in camicia nera, ma non mai quanta desiderava di montarci, aveva la messa in moto a manovella, e richiamava spesso Diciotto BL. Amava molto il fascismo, e lo serviva, senza null’altro chiedere che un po’ di benzina e di olio. Infiammatosi d’amore per una vaga donzella chiamata Spedizione Punitiva, s’unì con essa in vincolo di matrimonio, e quando quella morì, il povero camion, vinto dalla disperazione, si mise a trasportare legnami, balle di gesso e altro materiale. Un giorno del 1924 la Spedizione Punitiva ritornò su questa terra, e, per qualche mese, il camion filò con lei il vecchio amore.

Egli si rammentava sempre di aver trasportato in quell’epoca all’Abbadia San Salvatore molti baldi giovanotti che andarono là a salutare il duce, e a fargli atto di dedizione e di affetto. Quando ricorda quel giorno, il povero camion non può frenare una lacrima sul ciglio del carburatore. Agonizza ora in un buio garage, consumandosi d’odio verso l’infame buicche e si duole che i giovani l’abbiano tradito per quella civettaccia straniera.

(…)

Il premio Biella, del quale Venti su un autocarro fu vincitore, alla fine del ‘39, era una delle tante manifestazioni volute dal Regime per portare —come diremmo oggi — la cultura sul territorio. Manifestazione, però, non delle minori, tanto che la giuria fu presieduta anche da Marinetti, e nell’anno della vittoria di Strumia era guidata da Ezio Maria Gray.

Pure la rosa dei concorrenti, in quel 1939, era selezionata: il nostro “romanzo squadrista” infatti prevalse, tra gli altri, su Bocche di donne bocche di fucili che l’emergente Lajolo aveva dedicato alla sua esperienza nella guerra di Spagna.

“Romanzo squadrista” ho detto, anche se, in verità, esso si compone di due parti: la prima delle quali è dedicata alle avventure camionistiche di un quindicenne che aderisce al movimento mussoliniano, mentre la seconda racconta il “dopo”, che lo vede camicia nera della Milizia e Ufficiale di Artiglieria, fino alla fine eroica in combattimento, in un luogo non precisato: forse Africa, Spagna, o confine italo-francese.

Un’altra prova della accennata volontà di “spersonalizzare” il romanzo, che pure resta chiaramente autobiografico (il protagonista si chiama Guido, è squadrista giovanissimo e poi Ufficiale di Artiglieria, come Strumia appunto), seminando false tracce, come quella della morte dell’io narrante.

La prima parte ha un andamento che ricorda — molto — il Diario di uno squadrista toscano del diciassettenne (un’altra prova del fatto che lo squadrismo fu un fenomeno di “giovanilismo volontaristico”) Mario Piazzesi, peraltro sicuramente ignoto all’Autore perché pubblicato per la prima volta 40 anni dopo. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, che ambiente umano e “clima” nelle squadre era identico ovunque, così come i nomi delle squadre stesse…e infatti quella del romanzo si chiama proprio “Disperata” come la formazione fiorentina di Piazzesi.

Anche i personaggi ci pare di conoscerli già: «un’allegra banda di amici rumorosi e pronti, che si sono incontrati per via delle idee che si somigliavano, e capiti, e amati,….» . Qui troviamo, per esempio, il ciabattino Vigi, che non può non ricordare «Beppe, lavandaio cialtrone che intontiva col suo vociare sguaiato» di Piazzesi, e che, come quello faceva con il «professore di matematica… sempre in mezzo alle nuvole, raffinato, esteta alla Oscar Wilde», convive senza problemi con i tre “acculturati” della squadra:

«Persino Romualdi, il pensatore, oggi parla poco, piano, a bassa voce. Lo sento che scambia qualche parola con Mirancelli, il fascista anarchico, e Della Rocca, il fascista repubblicano; il solito trio, i tre intellettuali della squadra. In tutta la Disperata non ci sono mai stati che loro, discorrere di politica!»

(…)

Così andavano le cose allora, finché tutto finì con la Marcia su Roma.

Poi subentra, nella narrazione, una seconda parte più intimista che, così come la prima presentava i già detti punti di concordanza con il “Diario” di Piazzesi, potrebbe a sua volta ben figurare tra i romanzi di Marcello Gallian.

È il racconto sofferto dell’esperienza di vita degli — ormai “ex”— squadristi, nell’Italia normalizzata che, non solo male li sopporta, ma fa addirittura spazio ai loro nemici di ieri, i borghesi, mentre gli sfasciatori di Case del Popolo e di Leghe multicolorate vengono relegati negli angolini, quasi nascosti alla vista, perché di loro ci si vergogna.

È il destino che in Gente di squadra di Gallian (recentemente ripubblicato da AGA Editrice) aspetta Giovanni, Otello, Aldo e “Spigolo”, e qui tocca a Pierino, Vigi, Giacomo e Tealdi, con l’attenuante che per alcuni di loro vi è, almeno, un ruolo nella Milizia. Ma la realtà è quella che è:

«È triste, è lo sconforto… per tanti è peggio, è la miseria… i militi non trovano impiego, non trovano lavoro. Dalle fabbriche, dagli uffici, li allontanano, li mandano via: coi pretesti, con le scuse, con tutti i motivi vili che sa trovare il ricco per cacciare via il fascista! Vogliono affamarci, vincerci con la fame».

Guido, il protagonista, intreccia a questa delusione umana e politica, quella personale: la sua storia con Graziella, la fanciulla amata fin da ragazzo, naufraga, per l’incomprensione di lei, schiava di consuetudini e convinzioni borghesi. Il dolore, mischiato a quello per il fallimento della Rivoluzione, lo spinge allora a tentare il suicidio.

E questo è un elemento assolutamente originale della narrativa dell’epoca, tesa ad esaltare un tipo d’uomo che non cede, che reagisce al fato e lo vince, in ottemperanza al dettato mussoliniano contenuto nella “Dottrina del fascismo”: «…il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio, comprende la vita come dovere, elevazione, conquista. La vita che deve essere alta e piena, vissuta per sé ma soprattutto per gli altri, vicini e lontani, presenti e futuri».

(…)

Il protagonista del romanzo cerca la morte, ma senza riuscirci, per un soffio:

«Sono vivo perché sono stato onesto: non ho voluto servirmi delle pallottole mie, quelle di dotazione che ci dà l’Esercito, blindate a balistite. Poche lire e un grasso armaiolo miope mi ha fornito questa vecchia roba da guerra del ‘48, polvere nera e palla non blindata».

Il fallimento, però, dà origine ad una nuova vita ad un nuovo amore, Carmela:

«È bionda, e Graziella era bruna; è lieve, dolce, serena, ha gli occhi come il nostro sole, non come il nostro dubbio, e vede ciò che Graziella non ha saputo mai vedere, ciò che è grande in noi. Io amo Carmela. Non perché da lontani giorni io la ricordi, come Graziella, non perché la sua visione in me si fonde alla nostalgia dei miei monti, della mia terra, della mia lontana infanzia. Io l’amo e non so perché».

È fin troppo facile capire che, pur nella sua realtà, il tutto assurge a valore metaforico. Per chi avesse dubbi, è lo stesso Strumia a spiegarlo:

«Allora la visione di Graziella si fa opaca e confusa, e scompare nel rosso gorgo del passato, del tempo di una volta, allora Graziella e il mio amore per lei appaiono solo più come un simbolo del primo tempo del Fascismo, e Carmela, bionda, serena, bella, un simbolo, una voce, nel coro immenso del fascismo trionfante!».

La nuova vita “fascista” di Guido vuol dire quindi l’Impero, la guerra di Spagna e, infine, la guerra mondiale. Il sangue di Guido consacrerà il trionfo sperato e voluto e, idealmente ricongiungerà passato e presente: le squadre, la Rivoluzione e la guerra del sangue contro l’oro. Il libro si chiude qui:

«E lassù, dove noi non vediamo, erano tanti ad attenderlo. Da vecchi cari fantasmi fu accolta l’anima sola, e non con pianti e sospiri, ma con sereno riso e voci e clamori lieti, così così, come quando anche quelli erano vivi e alla vecchia, sublime sede dei pochi fascisti di allora, lo accoglievano con chiasso e con riso, così così cantando:

…Disperata insanguinata…

Vola mia epopea, vola per tutte le terre.

Vola… mia sublime Disperata!»

 

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