Sopra: Saturnia Tellus, rilievo esterno lato Est, Ara Pacis Augustae, 13 – 9 sec. a.C. Museo dell’Ara Pacis, Roma.
Claudio Pirillo: La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte I: Nazione e Impero.
La parola Tradizione (Traditio) deriva dal verbo latino tradĕre con valore di affidare, tramandare, trasmettere, comunicare. In senso spirituale, la Tradizione è data dal Corpus di norme, regole e riti –validi per ogni tempo e luogo – atto a perpetuarla. Persino il verbo italiano tradire – nel senso di consegnare – al nemico – può essere fatto risalire al verbo tradĕre. Per il verbo tradire si usa anche il verbo prodo, prodĕre (tradire, consegnare, svelare, propagare): aliquem alicuius prodo, tradire qualcuno; Multi ob pecuniam amicos produnt, Molti tradiscono gli amici per il denaro. Altri verbi con significato di “tradire”, Fallĕre, aperire. Dal verbo prodĕre, l’aggettivo ‘proditorio’ e il sostantivo ‘proditore’, vigliaccamente e vigliacco. La partita linguistica, per quanto di interesse, si gioca sull’ambivalenza di tradĕre: ambivalenza per la quale può valere l’inversione dei significati, delle parole, dei simboli, oggetto di scritti evoliani.
La Tradizione: alimentare il fuoco, portare la luce, NON adorazione della cenere (pur importantissima nel suo significato ermetico-alchimico).
Orbene, dalla fine del II conflitto mondiale è ricominciata – tanto da parte della destra reazionaria quanto della sinistra marxista, alleate agli ambienti ultraclericali e ipercapitalisti – la guerra al concetto stesso di nazione, verso gli interi sensi del costrutto (nazione e nazione – stato come sovrastruttura, nazione come soggetto di origine illuminista-mercantile etc.).
Vediamo di comprendere correttamente come stanno le cose in realtà, linguisticamente:
«La parola ‘natio’ (nazione, gente, nascita, genere, razza; classe, generazione, setta, genia, schiera) trova la sua origine in ‘nascor’ (nascere, essere generato, derivare, discendere,crescere, svilupparsi, ergersi, innalzarsi). Per esempio, ‘Suebis nationis’ (svevo di nascita); ‘natio optimatum’ (classe degli ottimati); ‘natio epicureorum’ (setta degli epicurei); ‘amplissimo genere natus’ (nato da nobilissima schiatta); ‘fluminibus alni nascuntur’ (gli ontani crescono sulle rive dei fiumi). Il Brozzi, nel suo ‘Dell’Origine e Natura del Linguaggio ossia Etimologia della Lingua Latina coi rapporti tra l’idee e le radici delle parole’ spiega che la radice indoeuropea sna ha valore di ‘legame’, ‘corda’, ‘allacciare’, ‘avvolgere’ etc. (cfr. Brozzi cit, Città di Castello, 1909); per aféresi della ‘s’ deriva ‘na, con significato di ‘filo’, ‘vinculum’. L’ampliazione con la dentale ‘t’ da ‘nat’, con valenza di ‘stringere, accumulare, ammassare’.
Quindi, nazione è – letteralmente – ciò che unisce e vincola popoli che vivono in luoghi diversi di un più vasto territorio, è la comunanza o l’assimilabilità dei culti e degli usi recati da un ethnos unico o compatibile per antica comunione, che la storia successiva di seguito dilata.
È quanto è accaduto per le primeve comunità indoeuropee. In Italia, Roma fece di ‘genti diverse’ un’unica nazione; nell’ancor più frammentata Europa di quelle epoche Roma fece un unicum, un Impero dall’Atlantico alle pianure sciite, dal mare del Nord all’estremo Sud, fino alle coste mediorientali del Mediterraneo, ovunque portando la saggezza della sua giustizia e del suo diritto […] un Impero costruito con una scrupolosa attenzione alla specificità della propria Anima romana»[1].
Dai tempi antichissimi della nostra Civiltà Italica, il territorio entro le cui frontiere viveva il popolo della Natio, si legava al Genius Loci, espressione e funzione del maggior Genius Italiae. Il concetto stesso di Genio che sovrintende e protegge la vita e l’intelletto del popolo rimanda tanto a un Entespiritualmente intelligente che si lega al locus e alla vis del popolo, quanto alle capacità creative e alle abilità del medesimo popolo nelle sue élite intellettuali e militari.
Al culto della Nazione (la Dea Italia, la Dea Roma, la Dea India, il Dio Giappone, la Santa Russia etc.) è legato il culto degli Eroi: la Nazione – in quanto divinizzata e Dea unita misticamente all’Imperatore, al Rex (Rex Sacerdos) nella sua duplice funzione umana e celeste – è la terra dei Patres, è la terra dei fondatori eponimi, di coloro che – essendosi sacrificati per la sua grandezza e per la salvezza delle genti, del popolo, ai quali spetta un trono nel Cielo urbico, nel Tempio celeste, tal quale nel ciceroniano Sogno di Scipione.
In Corradini, la nazione e l’imperatore sono una cosa sola e, scrivendo intorno alle tradizioni nipponiche, lo afferma chiaramente:
«Con il culto degli eroi, dell’imperatore e della natura, il popolo giapponese compiva atti di autoadorazione, che integravano la collettività e consolidavano una coscienza nazionale…”. “Il Giappone è il dio del Giappone. La forza che questo popolo attinge alla religione è forza attinta nelle sue stesse viscere, gli eroi sono popolo del passato, la natura è la patria: v’è un’autoadorazione».
Così Enrico Corradini, il 19 giugno 1904 nel suo scritto UNA NAZIONE pubblicato ne IL REGNO. E così in tutta la sua produzione letteraria e saggistica, il Corradini afferma:
«Magnifica è la religione degli eroi e della natura. La rivoluzione francese rimise in onore due grandi cose: il valore militare e il culto della patria e della natura. Bisogna su questi punti riprendere le tradizioni rivoluzionarie (…). Noi pensiamo ad una religione che ci renda il sentimento della natura qual è nella salutazione di Mitra, congiunto al culto degli eroi, cioè di quella parte di umanità che è passata su questa terra per creare in alto il regno dell’eterno umano ideale»[2].
È una concezione terribilmente vincolante, quella della Terra, per l’antica civiltà italica e romana: a essa si legherà lo stesso patto con gli Dei e il conseguente Diritto Sacro.[3]
«Ancorato alla Terra e all’individuazione delle divinità che l’abitavano, l’antico Romano mirava a dare una base di certezza alla divinatio che interpretava i fenomeni della Terra-Tellus, meno affidandosi al “furore profetico” proprio della mantica greca della quale il termine latino, come precisa Cicerone nel De Divinatione (i 1), era la traduzione. Le stesse operazioni agrarie, con il lungo elenco dei lavori necessari, specificatamente denominati, erano ritenute sacre, elevate al rango di divinità sia pure minori (indigetes). Gli antichi Romani sentirono il loro sistema religioso non solo come venerando, ma anche come razionale, confermato, nella sua validità, dai successi della città di Roma alla conquista del mondo. Continui erano i signa di Tellus, e quindi delle divinità che andavano sempre scrupolosamente interpellate, con rigorosi, ancestrali riti. Una persistente cura rituale investiva la vita pubblica di Roma antica. La celebre affermazione di Polibio sulla straordinaria religiosità dei Romani appare pienamente giustificata».[4]
La natura entro i cui limiti si costituisce la comunità, identitariamente, è a fondamento del concetto stesso di ordine, quindi di Legge, così come i Romani definivano: un costrutto che nello stesso istante era limite, ingresso, uscita, dell’azione delle forze numinose legate alla salus populi. Per contro, l’allontanamento da tale Ordine segna la fine di ogni regola e di ogni contatto, spezzando il patto.[5]
È a partire dal legame con la Terra dei Patres (da cui “patricius”) che si stabilisce l’ordine comunitario che diventerà ordine della Natio, quindi ordine dell’Imperium. Tale legame, esiste in ragione della fides prestata dalla Comunità al Genius Loci prima, quindi al genius Populi, indi alla Divinità – sive mas sive foemina – secondo il rito romano, che condurrà alla dignità dell’Imperium al fine di salvare la Res publica.
In questo legame con la Terra, vi è molto di più del binomio sangue e suolo, così fortemente identitario fra i popoli di più antica Tradizione e che, in ambito indoeuropeo vedrà la figura del Signore (Pater familias, Re, Console, Imperatore) diventare il ponte materiale col Cielo misterico: i pacta Deorum…
In Giappone la Nazione si trasforma in Impero. Egualmente, a Roma, la Res publica assunse la dignità di Imperium.
L’IMPERIUM non aveva, in origine, il significato che oggi si attribuisce alla parola ‘impero’. Per i Romani era una dignità spirituale, poi civile e militare: il titolo di AUGUSTO, consacrato dagli àuguri.
Il dizionario etimologico, così spiega il titolo di “AUGUSTO”:
A colui che è proclamato e consacrato Augusto, spetta anche il titolo di Pontifex Maximus (e non poche volte, anche quello di Rex Sacrorum).
Il periodo cosiddetto “alto-imperiale” (27 aC - 305 dC) vede i discendenti di Augusto raggiungere il Potere fra il 14 aC e il 68 dC (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone). Quindi i Flavi e poi gli Antonini dal 96 al 193 dC (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio e Commodo). I Severi (Settimio, Caracalla, Macrino, Eliogabalo e Alessandro), tennero l’impero dal 197 al 235 dC.
Per circa settanta anni, Roma divette difendersi continuamente dai barbari del nord e da quelli d’oriente. L’anarchia militare portò alla proclamazione di vari “imperatori-soldati” il cui fine era la lotta ai nemici dell’Impero. Nella crisi economica che seguì, l’invasione di nuovi culti orientali, come il cristianesimo, provocarono una acuizione delle difficoltà e una crisi religiosa. La perdita di identità del populus fu evidente… e la Dea Roma e il suo pontificato si ritirarono nelle navi arcane, nei delubri più profondi del Latus Vetus…
A Diocleziano (Caio Aurelio Valerio Diocle) non rimase che dividere l’Impero (286) fra Augusti e Cesari, al fine di assicurarne un migliore controllo amministrativo. Affidò a Massimiano il controllo sulla parte Occidentale (contrastare le rivolte di Galli e Germani), il quale spostò la capitale da Roma a Milano, e dell’Africa nordoccidentale; Massimiano nominò quale Cesare Costanzo Cloro che fu prefetto delle Gallie, con capitale Treviri (sul Reno). Diocleziano tenne per sé la parte orientale (spostando la capitale a Nicomedia, con grave nocumento per Roma e l’intera Italia, e nominò Galerio come Cesare, affidandogli la prefettura dell’Illirico.
Quando con Costantino I il cristianesimo diventa politico e assume il potere, l’IMPERIUM che fu augusteo era virtualmente finito: il solo breve, troppo breve, periodo di Giuliano Flavio sembrò restituire la speranza di una resurrectio Romae, ma la sua morte in combattimento (Giuliano fu colpito da un legionario cristiano traditore), pose fine al progetto di restaurazione; con Teodosio I l’Impero è definitivamente cristiano e i pagani sono assassinati o incarcerati e privati delle loro sostanze. Suo consigliere è il vescovo Ambrogio di Milano, capo dei mercatores, proprietario di varie Terre a Treviri e in Africa settentrionale… Alla morte di Teodosio I, nel 395, l’Impero è diviso fra Arcadio (parte orientale) e Onorio (parte occidentale). Fu una divisione permanente e, nonostante i tentativi, le due metà non ritornarono mai all’unità. Distanti i due imperi, distanti le nazioni che li componevano: solo le schole sapienziali pensavano all’IMPERIUM come centro spirituale-politico unificante e armonico.
Noi affermiamo con forza che senza la Nazione non può esservi Impero, poiché Nazione e Impero, prima di essere concetti politici o geopolitici sono concezioni “superreligiose”, cioè di legame con le forze dell’Alto: il Fato numinoso affida la missione dell’Imperium che deve riprodurre fedelmente l’ordine cosmico: e sia detto una volta per tutte, solo la ROMA classica giulio-claudia potè, in tal senso, essere Impero. Per mandato divino.[6]
E solo una filiazione romana, non presunta bensì concreta, può dar vita a un legato neoimperiale… Vi è mai stata tale filiazione, tale legato. Crediamo di sì: tornando a celarsi nei delubri arcani, la Dea Roma ha lanciato, con l’Arbor felix, i suoi semi, veicoli dell’Id-Ea.
In fondo, a Roma non furono assegnati confini e, come è noto, i semi attecchiscono ovunque vi siano condizioni perché possano germogliare.
Ora, se Roma riuscì a fare di genti diverse un solo popolo, ciò fu possibile perché gli elementi (le varie genti coi loro culti e le loro lingue) costituenti l’identità dei diversi popoli erano essenzialmente i medesimi. Il nome ITALIA, peraltro, è noto sin dal II secolo aC; dalla fine della guerra civile del 91- 88 aC Romani e Italici ebbero gli stessi diritti e furono una cosa sola. Quando, poi, con Augusto (si veda RES GESTAE) Iuravit tota Italia sponte sua, l’Italia fu NAZIONE ITALIANA…due millenni prima di quanto avvenne ad altri popoli al di là e al di qua dell’Atlantico. E fu l’Itala Nazione a essere al centro dell’Imperium e Roma quale centrum d’Italia.
Per tali motivi rifiutiamo la truffa del SRI della nazione tedesca, ente politico sovranazionale fondato (dapprima col solo sostantivo di Impero, poi aggiungendo l’aggettivo pretenzioso di romanum) dal barbaro franco Carlo, macellaio dei liberi Sassoni e cane da guardia del papato di Leone III (solo nel 1512, sotto l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, l’espressione “Sacro Romano Impero della Nazione Germanica” - in tedesco Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation, in latino Sacrum Imperium Romanum Nationis Germanicae - già attestata fin dal 1417, fu usata in un atto del sovrano, il preambolo di commiato al Reichstag di Colonia. La titolatura dell’imperatore, in ogni caso, non cambiò, restando fino al 1806 Imperator Romanorum semper Augustus, senza riferimenti germanici. QUESTO IMPERO, in verità, fu e resta una colossale menzogna storica (nessun legato dalla Roma classica e pagana) dall’800 dC al 6 agosto 1806 (di seguito alle vittorie napoleoniche e alla pace di Pressburger cui segui l’abdicazione del sovrano austriaco).
E ci piace ricordare che la Russia degli Zar non riconobbe mai, nell’Austria, una qualunque forma di “eredità romana”. E come poteva? Avrebbe significato abbandonare il proprio diritto alla stessa eredità (questa sì, autentica).
Contro tutti i tentativi della Chiesa e dei sovrani suoi alleati di annullare l’Italia e Roma, Federico II di Svevia, ultimo Imperatore romano nel senso antichissimo pre-cristiano, rese omaggio al senato romano e riportò l’Italia al centro dell’Impero e Roma al centro dell’Italia: Qui, l’essenza della sua romanità classica. Affermando il principio che all’Imperatore soltanto compete la natura solare, dunque il primato nel governo delle genti, egli affermava – a un tempo – la potestà magica e sacrale dell’Imperator quale Pontifex, a fronte delle usurpazioni papiste. Alla sua corte, filosofi e letterati e scienziati (anche arabi) liberamente tenevano convivi e diffondevano Saperi.
Dunque, non l’avo Federico I “Barbarossa”, deve essere il riferimento tradizionale di chi auspica – anche attraverso la Terza Roma – una risorgenza della Prima Roma, bensì il nipote Federico II. Tanto il nonno ebbe in dispregio il Senato e il popolo di Roma, quanto il primo, nato in Italia, invece ne riconobbe pienamente le potestà di investitura e riconoscimento.
Amava, lo Stupor Mundi, parlare e scrivere in italiano e in latino e nacque e si diffuse la nostra lingua, primieramente alla Corte siciliana dell’ultimo Cesare romano. Si chiedano, certi tradizionalisti tifosi del Sillabo e della Chiesa cattolica apostolica “romana” (quanto abuso con questo attributo!), che confondono la prisca Roma con il c.d. Stato del Vaticano – uno Stato incarnato dalla figura papale – perché il peggior mondo germanico celebra, ancora oggi, il Barbarossa e non l’Italo nipote Federico II…
Jean Thiriart, nella sua visione paneuropea ed euro-russa/euroasiatica, si riferiva non solo al nazionalcomunismo di Stalin (maturato nel corso del II conflitto mondiale) ma anche alla figura romana ed europea di Federico II, non del Barbarossa.[7]
Thiriart si faceva interprete di un nazionalismo federale, sostenitore dell’autarchia delle grandi aree, endosviluppo delle possibilità economiche regionali: «L’Europa come un grande ente geopolitico centralizzato, economicamente e ideologicamente indipendente».[8]
La NAZIONE mercantile cui fanno riferimento gli “imperiali” papisti e affini della loro Santa Alleanza (passata e presente), NON è LA NAZIONE sacralmente intesa, elemento centrale dell’Impero, Ente solare e armonizzatore delle realtà identitarie. L’IMPERIUM è come Forza attrattiva, orbita solare dei pianeti (le nazioni): l’Impero ordina e non dissolve le identità, ma tutte le contempla e rispetta e conduce. Non esiste una nazionalità senza nazione e quindi, sostenere – evolianamente – che l’Impero ammette le nazionalità e non le nazioni, è una leggerezza…se non pure una sciocchezza. Sostenere, poi, che l’Illuminismo (per quel che ci riguarda: quello italiano) e il Risorgimento siano “antitradizionali” è senz’altro una colossale sciocchezza, perché significa non avere letto – o non avere compreso – gli scritti di personalità come Gaetano Filangieri, Pimentel, Salfi, Pagano, Russo, Musolino, Mazzini, Bianco di Jorioz, Pisacane, Romagnosi, Garibaldi, Isidoro Bianchi, Vincenzo Cuoco (giusto con largo volo i primi che ricordiamo nel periodo 1798-1870): la sacralità, i richiami ai Misteri classici e pagani, alla costituzione spartana, alla religio egizia (un modo per dire “italica”) e romana arcaica, traspaiono in tutta evidenza persino nella necessità di costituire un nuovo modello sociale ben oltre quello assolutistico e clericale.
Almeno per l’Italia, l’Illuminismo e il Risorgimento si presentano non già come lo sviluppo alla Pace di Westfalia, bensì come una reazione a essa: laddove il Trattato che pose fine alla guerra dei Trent’anni (1618-1648) continuava nel relegare l’Italia alla sfera di influenza franco-ispanica-austriaca (più i possedimenti papali al centro della penisola), Illuminismo e Risorgimento ripresero la fiaccola dell’Umanesimo e del Rinascimento, del medioevo dantesco e dello Stupor Mundi, con il recupero delle memorie anticoromane, italiche e magnogreche, germi della futura unità nazionale. Nel segno di Roma, appunto, nel segno di Augusto…
Sostenere, dunque che la NAZIONE sia una struttura antitradizionale a prescindere (anche quando è fondata su altro da ciò che è la tirannocrazia teologizzante – quando cioè la NAZIONE fa propri i riti di più vetuste tradizioni legate al Genius Loci, all’etno-onomastica, alla stirpe e alla sua identità ancestrale) allora deve anche accettare di essere ACCOMUNATA PROPRIO A QUEI MERCANTI CHE SI PRETENDE DI COMBATTERE. Perché sullo stesso piano dei preti antinazionali di tutte le religioni ci stanno due forze (apparentemente antitetiche) quale CAPITALISMO (e Capitalismo globale in particolare) e COMUNISMO – regime (che per certi versi è da distinguere dal bolscevismo/modello – il soldato-contadino, il difensore della rivoluzione, per quanto desacralizzato):
«[…] il 23 giugno del 1972 nella tenuta dei Rockefeller nei pressi di Tarrington, New York. Presenti, fra gli altri, Bayless Manning, che era presidente del Council of Foreign Relations (CFR); Max Konstamm, già intimo collaboratore di Jean Monnet; Guido Colonna di Paliano, presidente della Rinascente ed ex membro della commissione CEE […], un ex ministro degli esteri giapponese, Kichi Miyazawa, fu decisa la nascita della famosa Commissione Trilaterale.[9] La prima riunione fu nel 1975, a porte chiuse, a Tokio. Quali sono state le opere della Trilaterale? Orbene, in questi ultimi trenta anni, di fatto la commissione Trilaterale ha tecnocraticamente – dice Dolcetta – gestito gli affari del mondo, costituendo un sistema tripolare per blocchi economici [...] dalla caduta di Gorbaciov i membri della Trilaterale di fatto hanno tenuto d’occhio i nazionalismi. Jean Poncet, della Bilderberg, ebbe a dichiarare che “il nazionalismo è un capitolo superato della storia europea”; Jean-Claude Casanova (Trilaterale) riconosceva che “IL SOLO SUCCESSO DEL COMUNISMO È STATO QUELLO DI CONTENERE IL NAZIONALISMO”, nel mentre Edmond De Rothschild… molto chiaramente affermava: “La struttura che deve essere distrutta è quella della nazione”».
Nelle parole dei Finanzieri e Banchieri, troviamo la conferma che il vero nemico da abbattere, per il capitalismo, è costituito da tutte le identità nazionali, concettualmente contrapposte al costrutto di Stato Multinazionale. Dunque, non il comunismo si contrappone al capitalismo (che, anzi, lo ha usato come “immagine leninista”, l’utile idiota cui è stata concessa la corda con la quale si è strangolato), bensì il nazionalismo identitario. Per Hedges: «Il capitalismo è stato presentato come un bene in sé. Non gli si chiedeva di essere socialmente responsabile. Qualunque ostacolo alla sua espansione – si trattasse di misure anti-trust, di azione sindacale o di regole di comportamento – veniva condannata come una porta aperta al socialismo»[10]. In conseguenza: «[…] Il “nazionalista” oggi si porrebbe al di fuori del mondialismo, al di fuori di ogni relazione ‘democratica’ e ‘pluralista’: ma per quanto noi ci sforziamo, davvero non riusciamo a capire perché ‘relazionarsi internazionalmente’ debba significare promiscuità globale, mundialismo informe, senza carattere distintivo, senza personalità».[11]
Le frontiere sono luoghi identitari, di conoscenza e di relazione: i confini sono, in una certa ottica, luoghi di ristretti accordi e limiti commerciali. La NAZIONE è delimitata dalle sue frontiere: l’Europa odierna è fatta di confini…che si aprono e si chiudono a seconda delle esigenze del Capitalismo globale (vedi Maastricht).
Il concetto di Impero, semmai, è diniegato non dalla NAZIONE ma – ancora una volta – dal potere Globale, tirannico, religioso, fideisticamente incrollabile nella propria missione, dello STATO degli STATI, il globalismo che ha negli USA la sua arma di aggressione e dissuasione, centro del potere mondiale unipolare (già noti tanto alla Geopolitica del primo ‘900 quanto a sociologi ed economisti: si vedano Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, di Weber, e Warum gibt es in den Vereinigten Staaten keinen Sozialismus? di Sombart). Sulla differenza fra frontiere e confini, ritorneremo.
Né l’Illuminismo, né il Risorgimento (e il concetto di Nazione) sono mai stati antitradizionali, almeno in Italia: semmai lo furono e lo sono certe tendenze assolutiste della teocrazia monoteista e certi ambienti “storici” di una destra e di una sinistra fautori dello stesso globalismo, che appaiono in sintonia col peggior capitalismo e col peggior comunismo. L’Impero in quanto tale (IMPERIUM) fu e resta soltanto quello romano-antico, perché voluto dal FATO che regge le sorti, perché i pegnora lo dimostrano, perché ancora oggi i popoli vivono ordinati grazie a norme fondate e date dal Diritto e dal Diritto Sacro romano: la distanza da queste norme ha creato le degenerazioni successive.
Tuttavia, la Roma di oggi, una sorta di mercato confuso come se ne vedono in Nordafrica o in Medioriente, NULLA ha da spartire con la nostra ROMA, se non i monumenti, MA PUR COSÌ OCCORRE AFFERMARE CON ALTRETTANTA FORZA CHE LA NOSTRA ROMA, NON È NEI SUOI MONUMENTI E NEI SUOI EDIFICI RESIDUI[12].
Essa è ora adelia, ma potrebbe rendersi visibile ancora, forse per vie precluse all’Occidente decaduto e degenerato, mentre il veicolo può essere nordorientale. La sostanza che muta è solo la sua forma materiale. E allora bisogna cogliere l’opportunità.
Va da sé, dunque, che noi partiamo dalla valutazione storica di una TRADIZIONE esistente e precedente ben prima l’imporsi politico del monoteismo cristiano. Il monoteismo di Ambrogio di Treviri, vescovo di Milano, e dei suoi mercatores, il monoteismo dei parabolani e di Cirillo di Alessandria, che assassinò ferocemente la scienziata neopitagorica e neoplatonica Ipazia (355-415), non può pretendere di dirsi romano e nemmeno di avocare a sé l’Imperium. L’unilateralismo assolutista nasce col monoteismo, quale che sia tale confessione… e ciò vale per:
• L’impero del male – atlantico/anglosassone e protestante – che fa e continua a fare delle nazioni le proprie domestiche e le proprie pattumiere, ove riversare i fallimenti propri;
• Ed è valso per l’impero del male comunista (il cui effettivo fondatore fu Stalin – non Lenin – ex seminarista) che fece delle nazioni una propria riserva dissolvendo le identità nazionali e imponendo i propri modelli (in ciò similmente all’impero del male atlantico/anglosassone). Salvo richiamarsi alle singole patrie nazionali, nel suo discorso a raccolta per contrastare l’avanzata militare tedesca nella II G.M.
In tutte le estensioni politiche dell’antichità, dall’Impero persiano al macedone, massimamente a Roma, le NAZIONI sono state armonizzate e non dissolte: al punto che furono ammessi entro queste entità “imperiali” i culti e gli Dei propri dei singoli popoli. Ma occorre comprendere e fissare che:
La Multipolarità che oggi dilaga come una pioggia benefica sulla terra desolata dalla unipolarità atlantista, riprende il concetto sacro di Impero proprio riscoprendo pariteticamente il concetto di NAZIONE e considerando valide identitariamente tutte le culture nazionali.
Non le nazioni sono l’ostacolo alla sacralità dell’Impero, bensì l’annullamento di esse tale e quale volle il comunismo e non vi riuscì, tale e quale ha voluto e vuole il Globalismo finanziario del Mercato Unico col suo braccio armato atlantista in Europa da Lisbona a Kiev, responsabile delle c.d. primavere arabe, di quanto accade sulle rive del Mediterraneo orientale, di quanto è accaduto e accade ancora in Siria e ovunque vi sia una NAZIONE libera che non ha intenzione di essere fagocitata dal Mercato Unico globalista. Il concetto di Nazione è spirituale, non liberista: la dimostrazione è il continuo tentativo di annullare le nazioni da parte del Capitalismo. La Nazione assume la negatività mercantilistica e globalista quando degenera in “società d’affari”, rinunciando al comunitarismo identitario per acquistare “fette di mercato”.
Oggi, esponenti di straordinaria elevatezza spirituale, tanto all’interno dell’Islam quanto all’interno del Cristianesimo ortodosso, nella loro visione multipolare del mondo ci indicano – in una trasposizione politica – l’operazione alchimica della sublimatio come operazione necessaria alla coesistenza plurima delle identità nazionali.
Per noi, la NAZIONE è un elemento concettuale assolutamente spirituale e, in quanto tale, totalmente altro dalle sue degenerazioni mercantilistiche impostesi dopo la pace di Westfalia. Degenerazione mercantilistica confermata a distanza di trecentocinquant’anni dai Trattati di Maastricht. L’attuale corso culturale e politico russo, rappresenta – al contrario della logica mercantilistica – l’occasione attesa.
Note
[1] Claudio Pirillo, L’Eredità politico-spirituale di Roma: Il Risorgimento, I, Zedda Ed., 2010.
[2] Claudio Pirillo, Osservazioni sul concetto di Essere e Tempo…, Zedda Ed., 2009.
[3] Gerardo Bianco, Tellus. La sacralità della Terra nell’antica Roma, p. 11, Salerno Editrice, Roma 2019: «Per l’antico Romano la Terra-Tellus era la casa comune degli dèi, degli antenati e degli uomini. Per vivere insieme occorreva conquistare la “benevolenza” delle divinità e realizzare, quindi, la pax deorum. Ogni luogo, ogni tempo, ogni operazione, anche umana, era sotto il segno del divino che andava individuato e specificato attraverso un nomen che ne indicasse la vis, la potenza, appunto, delle divinità con le quali conciliarsi per poter agire e coabitare. Il culto dei morti, dei propri avi come divinità protettrici, i Lares, costituí un primo, sicuro fondamento di una religiosità tellurocentrica coerentemente concepita. Le originarie divinità romane sono quasi tutte terrestri e venivano individuate attraverso la natura e le funzioni ad esse attribuite. La denominazione ne rifletteva i caratteri. La concezione spaziale di Tellus, per esempio, si articola in due potenti divinità romane, Ianus e Terminus, che indicano, appunto, gli inizi e le fini di ogni cosa. La religione romana piú che degli omina, presagi del futuro, è una religione dei signa, manifestazioni delle divinità. Ciò conferiva alla religiosità romana una caratura fortemente realistica che, insieme alla flessibilità interpretativa, consentiva un costante adeguamento alle inevitabili trasformazioni storiche e politiche».
[4] Idem, p.12
[5] Gerardo Bianco, cit., p.13: «La mentalità ordinatrice dell’antico Romano è essenzialmente geometrica; geometriche sono due sue massime divinità: Giano e Termine. Il mondo di Tellus ordinato dai nomina, cioè dalla forza delle parole, conferisce alla cultura di Roma antica una struttura di pensiero realistica, perché fondata sulla natura. Per Cicerone è, appunto, la natura che dà validità al diritto, alle leggi che regolano la vita della città. La ‘decostruzione’ del concetto di natura, in corso nel nostro tempo, cancella fondamentali principi di ogni ordinamento della vita umana che gli antichi Romani, con molta saggezza, avevano ben individuato in Ianus, la divinità degli inizi e in Terminus, la divinità dei confini, che mettono in guardia dalla presunzione dell’onnipotenza umana».
[6] Adriano V. Pirillo, Coscienza politica e giuridica a Roma e Atene, in “La Provincia KR” – settimanale, Crotone 2013: «Lo spirito romano e lo spirito greco hanno come categoria suprema, che dà consistenza al loro sistema morale e politico, la divinità della patria… Il pensiero greco precede, ma soprattutto eccede sulla vita e sul reale, dando luogo all’intellettualismo, con la Repubblica di Platone e con il cosmopolitismo delle scuole di fronte all’isolamento sterile ed improduttivo del saggio… Il prevalere della semplice erudizione fine a se stessa sulla speculazione, negli ultimi anni della decadenza, segna la fase conclusiva di un processo che aliena gradualmente gli interessi mentali dagli interessi vitali, sino a dare un eccessivo sapere al posto della funzione di una compiuta umanità. Ben diversa è la situazione a Roma: l’urbe è disposta piuttosto a rinunciare alle sublimi speculazioni che all’equilibrio perfetto della vita e del pensiero. A Roma il sentimento della patria è un tutt’uno con la coscienza civica e, mentre essa chiede ai suoi figli il soccorso delle armi e la saggezza politica, non concede loro l’otium della speculazione… presi come sono dal fine supremo di formare la repubblica reale e anziché propalare l’universalità dell’idea, tende a fondare l’universalità dello Stato… Perciò il cittadino romano è il pater familias che organizza il suo nucleo familiare in modo organico e compatto come una piccola comunità politica, è la madre che mostra e considera i suoi figli come gioielli, il guerriero che lascia bruciare la propria mano su un braciere ardente, il legato che per non mancare alla parola data al nemico si offre alla tortura, il condottiero che non dispera mai della forza della patria pur dopo sconfitte tremende, il dittatore che dopo aver riportato ordine e pace nello Stato lascia il potere e ritorna alla semplice ed umile vita dei campi… E come la più bella poesia latina nasce dalla gioia di una visione agreste e bucolica, così ogni conquista effettuata con le armi in pugno finisce per diventare una conquista del lavoro che il più delle volte viene affidata agli stessi soldati capaci di maneggiare altrettanto bene armi e vanghe […]. Le virtù del popolo romano dunque si devono considerare e definire solo insite negli esempi concreti, non fuori di essi; e tutte quante si possono riassumere nella Virtù per eccellenza, quella cioè che segna la completa dedizione del cittadino allo Stato, identificabile nella Fedeltà alle leggi in pace e nel valore militare in guerra… Roma è eterna finché l’universalità del suo sapere si è realizzata in una forma concreta di vita per i popoli, in una determinazione esatta dei limiti di libertà individuale in rapporto alla libertà degli altri, in quella che è il segno più civile della sua sostanza: il diritto. Col diritto essa ha potuto estendere un’unica disciplina a popoli diversi per lingua, razza, usi e costumi…partecipando a tanti popoli la sua vita. Il diritto inoltre,… ha stabilito la coincidenza tra il fare e il pensare,…costituisce …la caratteristica e la gloria dell’Urbe: e l’originalità di Roma sta nel fatto che esso diritto non fu opera di un individuo, re, filosofo, o conquistatore che fosse, ma creazione collettiva di un popolo che nella coerenza del suo genio stabilisce la coerenza di una legge molteplice e varia secondo i tempi e i luoghi e saldava in meravigliosa unità il contributo di re e consoli, di pretori e tribuni, il responso dei comizi e i consulti senatoriali e i rescripta imperiali. Come disse Catone il censore:’ [...]lo Stato nostro invece è opera non dell’ingegno di uno solo, ma di molti, non è formato nel corso di una vita sola ma attraverso più secoli e più generazioni.’ […] Mentre altri popoli, chiusi in se stessi, cercano tutti gli elementi che possono contrapporli e tenerli separati, lontani dagli altri – razza, territorio, culture, lingue- Roma invece adduce a motivi della sua singolarità proprio il carattere universale, la capacità o meglio la virtù di concentrarsi e approfondirsi man mano che si estende sino a divenire l’impero delle genti. È l’Urbe che si rende coincidente con l’Orbe; è la cittadinanza del vincitore data al vinto; è lo stato in cui vivono tanti popoli, lo stesso che ha però bisogno assoluto di quelle genti per vivere. Roma fu res gentium e res populi e, attraverso le più drammatiche vicende interne e almeno per nove secoli della sua storia, seppe mantenere quella forma di organizzazione politica per cui lo Stato è l’espressione dell’equilibrio organico delle classi, ricco di una volontà collettiva he esso rafforza disciplinandola e unificandola. Prima che venissero le popolazioni dell’Italia e del mondo a rafforzare quest’organicità dello stato romano, erano venuti i plebei a consociarsi col patriziato, ed era stata creata la repubblica contro la tirannide dell’ultimo monarca…, finché, nel genio militare e politico di Cesare ed Ottaviano, nacque l’impero per salvare la repubblica…: e nell’autorità dell’uomo in cui si incarna lo Stato, la repubblica trovò il difensore della giustizia e della pace contro le forze disgregatrici e le intemperanze di partiti sovvertitori. Quando con Diocleziano, l’imperatore diventerà dominus, e lo stato sarà foggiato sul tipo delle monarchie assolute orientali, la grande idea politica di Roma sarà perduta e verrà segnata la fine di Roma come realtà storica». Ciò che fu di Roma, fu dell’Europa, dunque.
[7] Dugina Aleksandrovna, D., Teoria Europa, p. 67, AGA Editrice, Milano 2024: «Jean Thiriart scrisse di sé: “Io, nazionalbolscevico europeo nella tradizione di Ernst Niekisch e ispirato all’esempio storico di Josif Stalin e Federico II di Hohenstaufen”». (nb: il grassetto è nostro). Nostra convinzione, in questo caso, è l’azzardo rappresentato dall’accostamento di Stalin allo Stupor mundi. A meno che, Thiriart, non intendesse porre due estremi… (però non congiungibili nemmeno all’orizzonte). Resta integralmente valido il riferimento alla visione imperiale del Secondo Staufen.
[8] Ibidem.
[9] Sulla Commissione Trilaterale, quanto riportato in Internet è estremamente indicativo di quanto gli apparati degli Stati e il Potere economico globale siano “una sola cosa”. L’Occidente, cosiddetto, che pervasivamente tenta di occidentalizzare l’intera “isola mondo”.
Storia
La Commissione Trilaterale venne fondata il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockefeller, presidente della Chase Manhattan Bank, e di altri dirigenti e notabili, tra cui Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski. L’organizzazione fu fondata a motivo del declino, in quegli anni, dell’influenza del Council on Foreign Relations, un precedente gruppo di studio americano di politica estera, le cui posizioni sulla guerra del Vietnam erano divenute impopolari.
Composizione
I membri della commissione provengono dalle tre aree geopolitiche di Europa, Asia e Oceania e America settentrionale. Il numero dei membri provenienti da ognuna delle tre zone è tale che la rappresentanza di tali zone è, in proporzione, sempre la stessa. I membri che ottengono una posizione nel governo del loro paese lasciano la Commissione. Al 2012 il Nord-America è rappresentato da 120 membri (20 canadesi, 13 messicani e 87 statunitensi), l’Europa da 170 membri (di questi 20 sono tedeschi, 18 italiani, francesi e britannici, 12 spagnoli, mentre i restanti Stati hanno da 1 a 6 rappresentanti). L’area dell’Asia Pacifica è rappresentata da 117 membri: 75 giapponesi, 11 sudcoreani, 7 australiani e neozelandesi e 15 dai paesi ASEAN. Nel 2011 la Trilaterale ha ammesso alle proprie riunioni anche rappresentanti di Cina e India. La lista dei membri è pubblicata ogni anno.
Al 2018 è Presidente del gruppo italiano della Commissione Trilaterale la giornalista Monica Maggioni, il suo vice è Enrico Tommaso Cucchiani e il segretario è Paolo Magri. Altri membri attuali sono: Ornella Barra (Walgreens), Giampaolo Di Paola (ex Ministro della Difesa), Marta Dassù (ex Viceministro degli Esteri), Gioia Ghezzi (Ferrovie dello Stato), Maria Patrizia Grieco (Enel), Vittorio Grilli (J.P. Morgan), Yoram Gutgeld (commissario spending review), Enrico Letta (ex Premier), Giampiero Massolo (ex capo dei servizi segreti e ora Fincantieri), Carlo Messina (Intesa Sanpaolo), Maurizio Molinari (direttore de La Repubblica ed ex direttore de La Stampa), Andrea Moltrasio (UBI Banca), Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), Maurizio Sella (Banca Sella) e Marco Tronchetti Provera (Pirelli).
Direzione e organizzazione
La struttura direzionale riflette le tre aree geografiche da cui provengono i membri: un gruppo europeo (Unione europea), un gruppo nordamericano (Stati Uniti, Canada e Messico) e uno asiatico-pacifico (Giappone, Corea del Sud, ASEAN, Australia, Nuova Zelanda, Cina e India). Ogni gruppo ha una propria presidenza, il cui gabinetto è composto da un Presidente (Chairman), due Vice-Presidenti (Deputy Chairmen) e un Direttore generale (Director). La leadership è collegiale. Le tre Presidenze sono affiancate da un Comitato esecutivo (Executive Committee). Il compito dei presidenti e vice-presidenti è quello di selezionare gli argomenti da discutere nei meeting, di organizzarli, coordinarli e presiederli.
Attività
Essa ha l’obiettivo di promuovere una cooperazione più stretta tra l’Europa, il Giappone e il nord America. Tra gli scopi che la commissione si propone c’è quello di facilitare la cooperazione internazionale nella convinzione della crescente interdipendenza tra gli stati del mondo.
Cronologia dei presidenti
• Presidenti del gruppo europeo
Jean-Claude Trichet (2011-)
Mario Monti (2010-2011)
Peter Sutherland (2001-2010) Honorary European Chairman
Otto Graf Lambsdorff (1992-2001) Honorary European Chairman
Georges Berthoin (1976-92) Honorary European Chairman
Max Kohnstamm (1973-76) Founding European Chairman
• Presidenti del gruppo nordamericano
Joseph S. Nye, Jr. (2008-)
Thomas S. Foley (2001-2008)
Paul A. Volcker (1991-2001) Honorary North American Chairman
David Rockefeller (1977-91) Founder and Honorary North American Chairman
Gerard C. Smith (1973-77)
• Presidenti del gruppo asiatico-pacifico
Yasuchika Hasegawa (2015-)
Yōtarō Kobayashi (1997-2015)
Kiichi Miyazawa, Acting Chairman (1993-97)
Akio Morita (1992-93)
Isamu Yamashita (1985-92)
Takeshi Watanabe (1973-85)
Controversie
Lo scrittore francese Jacques Bordiot affermò, riguardo ai membri della commissione, che: «…il solo criterio che si esige per la loro ammissione, è che essi siano giudicati in grado di comprendere il grande disegno mondiale dell’organizzazione e di lavorare utilmente alla sua realizzazione e che il vero obiettivo della Trilaterale è di esercitare una pressione politica concertata sui governi delle nazioni industrializzate, per portarle a sottomettersi alla loro strategia globale». (Présent, 28 e 29 gennaio 1985). Non sono però specificate le fonti su cui Bordiot avrebbe basato le sue opinioni. Secondo quanto riporta Noam Chomsky, l’amministrazione Carter fu fortemente influenzata da questo studio, e molti membri della Commissione Trilaterale vi trovarono successivamente ruoli di primo piano. In particolare, Chomsky cita “La crisi della democrazia”, uno studio commissionato dalla Trilaterale, quale esempio delle politiche oligarchiche e reazionarie sviluppate dal “vento liberista delle élite dello stato capitalista”. Per altri la Trilaterale è semplicemente l’espressione di una classe privilegiata di tecnocrati: «La Cittadella Trilaterale è un luogo protetto dove la téchne è legge e dove sentinelle, dalle torri di guardia, vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggiore benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». In Italia, tesi molto simili a quelle di Chomsky furono espresse dal programma televisivo d’inchiesta Report di Milena Gabanelli e da Paolo Barnard.
[10] Claudio Pirillo, Mutamenti socio-ambientali globali e interessi geopolitici. La funzione militare (La solitudine condivisa), Nuova Prhomos Ed., 2019.
[11] Ibidem.
[12] Mario Farneti, Occidente, Editrice Nord, Milano 2001, p. 39, pp. 179 e 262: «Pensa che la Roma antica non esista più, poiché è ridotta a poche rovine. Ma si sbaglia. Non sono i monumenti, i palazzi, gli stadi e i teatri che fanno una città, ma il suo spirito. È questo ciò che conta, e finché lo spirito sarà vivo, anche la città vivrà, oggi come ieri, sebbene sotto forme esteriori diverse. Quello che noi, Pontefici di Vesta, alimentiamo in questo tempio segreto è lo spirito immortale di Roma, che continuerà ad allignare in questi luoghi, vivificandoli, finché arderà il sacro fuoco…il fuoco di Vesta arde senza interruzione da quasi tre millenni e, dopo di noi, arderà ancora. Le Vergini Vestali, lo custodiscono ogni giorno ed ogni giorno alimentano le sue fiamme con il legno dell’arbor felix, così come prescritto dall’antico rituale. Noi esistiamo da molti saecula, prima ancora di Roma…Vi affannate a svelare il nome segreto di Roma senza neanche avere nozione di che cosa significhi la stessa parola Roma. Sappi che l’Impero, quello vero, non è mai morto, ma è esistito ed esiste da sempre sulla Terra, sebbene si sia manifestato una sola volta e per un breve periodo in Occidente…È un ideale di grandezza e di perfezione a cui tende il mondo intero e che si manifesterà in maniera definitiva quando e se gli uomini avranno la giusta consapevolezza, non solo attraverso la mente, ma soprattutto attraverso lo spirito». (v. a p. 39, in cui fa dire alla vergine Giulia Flaviana Morosini che dopo la morte di Flavio Claudio Giuliano nel 363: «i discendenti di Giuliano hanno conservato, attraverso i secoli, il culto segreto degli antichi numi tutelari di Roma…[...] Noi non combattiamo contro qualcosa, ma per qualcosa: per affermare l’idea di Roma, la grandezza dell’Impero…Noi…saremo sempre vincitori, anche se perderemo la vita, anche se le orde dei barbari ci travolgeranno. Perché l’Impero è eterno… sebbene non sempre si manifesti agli occhi della gente». (NB: il grassetto è nostro).