Sopra: Stefano Tofanelli (1752-1812), Apoteosi di Romolo, Olio su tela, ca. 1790, Palazzo Altieri, Roma.
Claudio Pirillo: La Terza Roma: prospettive per l’Italia e l’Europa – Parte I: Nazione e Impero.
Iª Sintesi
Il Cristianesimo in quanto tale, superstitio nova ac malefica [1], secondo gli Antichi, non ha alcuna qualità per assurgere al ruolo di Spiritualità Imperiale. Né ieri, con l’obbrobrio carolingio catto-germanico al servizio del potere temporale papista (o con l’assolutismo antitaliano, anticlassico degli Absburgo), né tantomeno oggi con un papato espressione becera della nuova “Santa Alleanza” con il liberismo ipercapitalista del mercato unico, del globalismo ipercapitalismo globale partorito all’interno degli Stati di confessione cristiana (in particolare cristiana protestante, calvinista, luterana) e del dettato talmudico e deuteronomico.
Tuttavia, come già fu per i circoli sapienziali dalla seconda metà del III secolo “d.C.” in poi, non può dubitarsi che il Cristianesimo dell’origine essenica [2] si presti a interpretazioni simboliche – tanto per i profili relativi ai sentieri delle realizzazioni spirituali, quanto per i livelli della sua funzione politica, al di là e al di fuori di ogni temporalismo, di ogni dogmatismo tirannocratico. Il Cristianesimo “niceano” ha ampiamente dimostrato – per quanto abbia predato a piene mani nella rituaria e nell’organizzazione del precedente culto avito – di non essere in grado di intronare l’Imperium.
A cominciare dagli Imperatori Costantino (in parte), Graziano e Teodosio, in toto, con la loro rinuncia dichiarata o de facto - alla qualità di Pontifex Maximus. Costantino I, in realtà, pur nei suoi aspetti più truci (fu massacratore dei propri familiari) anche dopo la sconfitta di Massenzio tentò di muoversi fra l’antica dignità pontificale pre-cristiana e il credo della superstizione cristiana. Ma, in concreto, solo l’Imperatore d’Oriente non rinunciò alla sua qualità di “isoapostolòs” [3] che lo rendeva, in pratica, capo della stessa Chiesa cristiana d’Oriente (mentre in Occidente, per esempio, il macellaio Ambrogio era libero di tramare e assassinare ariani e pagani).
Il culto di San Michele Arcangelo nell’oriente europeo, nuova ipostasi solare apollinea [4], fu sentitissimo nell’Impero dei Romei infinitamente più che in Occidente. Per certi versi, circa l’Impero dei Romani (l’unico, quello orientale – atteso che l’occidentale, dopo Diocleziano e il periodo dell’anarchia militare, divenne solo trastullo dei preti) si può affermare che fu il solo, seppure entro certi limiti, a perpetuare le istituzioni della Roma prisca: Cristo e San Michele furono rivestiti della stessa qualità del Sol Invictus [5] e di Apollo, mentre la Vergine Maria ebbe visibili attributi già dedicati a Diana, alla Venus urania, a Iside [6]. Mutata la forma, ma non mutata la sostanza: così a Costantinopoli e nell’intera Rumelia o Romània.
L’assassinio di Ipazia (415 d.C.) in Egitto (provincia dell’Impero d’Oriente) fu possibile solo perché l’Egitto era dominato da Cirillo, vescovo di Alessandria, che in forte contrasto col prefetto Oreste poté contare sull’amicizia spassionata di Pulcheria, sorella di Teodosio II, dunque sulla protezione di questi. Un tale assassinio, nell’Impero della dinastia Paleologa, non sarebbe stato possibile. Non tutti gli ortodossi considerano Cirillo un Santo, mentre è da tutti pregato come Santo, Costantino XI.
Ora, è proprio nella loro ipostasi solare che Cristo e San Michele [7] furono accepiti dal cristiano ortodosso romeno Codreanu o da “cattolici occidentali” come Primo De Rivera o Degrelle.
Oggi, il ritrovato orgoglio nazionale-spirituale russo - in una maggiore ottica euroasiatista - con le speranze di una risorgenza neoimperiale a valere come “guida di una rinascita spirituale” anche al di qua della Vistola e degli Urali - non è un rigetto del costrutto di nazione, bensì un invito alla scoperta identitaria delle frontiere in ottica paritaria multipolare: semmai si rigetta – giustamente – il confine quale linea di demarcazione mercantile, quel confine globale entro cui si muovono globalmente merci, denaro e persone – queste ultime parificate alle merci.
Il pensiero geopolitico della filosofia elaborato all’interno dei circoli neoplatonici russi, offre una insperata possibilità di risorgimento all’intera Europa, non solo alla sua parte russa.
«Вασιλεύς Βασιλέων Βασιλεύων Βασιλευόντων» [8].
Βασιλεὺς τῶν Ῥωμαίων [9]. L’Impero “bizantino” (Impero Romano d’Oriente) si connoterebbe, secondo molti storici, come di cultura in prevalenza greca - rispetto alla parte occidentale latina – dopo la morte di Teodosio I nel 395 (un anno dopo la battaglia del Frigido [10], nell’autunno del 394, che pose fine al tentativo di restaurazione aristocratica-pagana dell’Impero, a opera del pretendente Eugenio, espressione dei Circoli culturali tradizionali gravitanti intorno a Nicomaco e a Simmaco).
Fu l’imperatore Valente a utilizzare il termine Impero romano d’Oriente insieme a quello di Impero romano d’Occidente. Col XVIII secolo si impone la dizione di Impero bizantino volendo, gli studiosi, sottolineare una discontinuità con l’impero romano classico – a distanza di tre secoli dalla caduta di Costantinopoli. Le popolazioni dell’Impero d’Oriente, anche dopo la suddivisione in due parti dell’Impero, continuarono ad appellare loro stesse come “romane”, e tali furono considerate da tutte le popolazioni e gli Stati con cui furono in rapporti, diversamente dagli occidentali.
Per tutta la sua durata, l’Impero d’Oriente fu definito sempre come “romano” dai cronachisti contemporanei e, seppure in lingua greca, gli abitanti dell’Impero chiamavano loro stessi Ῥωμαῖοι (Rhōmàioi) ”Romei”, vale a dire “romani”. Fondando Costantinopoli, Costantino la definiva “Nuova Roma”: il titolo dei suoi sovrani era, infatti, Βασιλεὺς καὶ Καῖσαρ τῶν Ῥωμαίων (Basilèus kài Kàisar tṑn rōmàiōn) “Imperatore e Cesare dei Romani”.
L’intero territorio balcanico, sede dell’Impero d’Oriente, era chiamato Rumelia e i successivi conquistatori ottomani continuarono a chiamarla Rumelia; non solo, gli Ottomani adottarono la parola RŪM, cioè al-Rūm, parola con cui i mussulmani indicavano i “Romani d’Oriente”.
Non è tutto: dopo la conquista di Costantinopoli i sultani si assegnarono il titolo onorifico di Qaysar-i Rum (“Cesare dei Romani”). Persino il nome di Costantinopoli fu mantenuto (Qusṭanṭīyya), fino alla rivoluzione turca degli anni Venti (con Kemal Ataturk, Presidente della Repubblica Turca nata dalle ceneri dell’Impero ottomano) del Novecento, quando il nome mutò in Istanbul (nome di origine greca, peraltro: eis ten polin - andare/essere – nella città) [11].
Vi sono differenti opinioni, fra gli Storici, circa la data da adottare in ordine al momento “romano-orientale” e a quello “bizantino”: il 395 d.C. segna non solo l’anno della morte di Teodosio I (noto per il suo livore, per il suo odio contro i pagani – si veda il famoso editto [12]) ma anche la separazione definitiva fra le due sponde dell’Impero; a Teodosio I succede il figlio Arcadio che regna fino al 408; alla sua morte, l’Impero passa al figlio Teodosio II, che regna dal 408 al 450.
È nel suo periodo di regno che Cirillo, vescovo di Alessandria e amico di Pulcheria sorella di Teodosio II (l’Egitto era provincia dell’Impero d’Oriente) fa assassinare, orribilmente, dai parabolani la filosofa e scienziata neopitagorica e neoplatonica Ipazia.
Secondo altri, la definitiva separazione dell’Impero va posta al 476, data della caduta dell’Impero d’occidente, o il 330 – anno di fondazione, da parte di Costantino I, della Nova Roma o Νέα Ῥώμη, concepita nostalgicamente come copia della Roma primeva. Per altri, la data va fissata al 565, anno della morte di Giustiniano I che fu l’ultimo imperatore d’Oriente di lingua latina (il quale pensava a una Restauratio Imperii), o al 610 (Eraclio I imperatore, che ufficializzò il greco come lingua dell’impero). Seicento anni dopo, nel 1204, i Crociati del papato e i veneziani distrussero l’Impero, restaurato in qualche modo nel 1261 e definitivamente dissolto nel 1453 a opera dei Turchi Ottomani guidati da Maometto II.
La parola “bizantino” (da Bisanzio, antico insediamento greco della Tracia, regione nella quale fu fondata la nuova capitale imperiale di Costantinopoli) non fu mai utilizzata dagli abitanti dell’Impero d’Oriente (395-1453): Essi si definivano Ῥωμαίοι, e chiamavano il loro Stato Βασιλεία Ῥωμαίων (Basilèiā Rhōmàiōn), cioè “Regno dei Romani” o semplicemente Ῥωμανία (Rhōmanìā).
Infatti, per tutto il dominio di Giustiniano I, nel VI secolo, il latino rimase la lingua ufficiale tanto a livello militare quanto a livello amministrativo, in tutti i territori dell’Impero. Il greco era adoperato come lingua franca o in ambito artistico:
• termine “bizantino”, in relazione all’Impero romano d’Oriente: introdotto per la prima volta nel 1557 dallo storico tedesco Hieronymus Wolf, che in quell’anno diede alle stampe il libro Corpus Historiae Byzantinae.
• un secolo più tardi e precisamente nella seconda metà del XVII secolo, Jean-Baptiste Colbert, fece pubblicare nel 1648 – affidata al Gesuita Philippe Labbe – la raccolta di Byzantine du Louvre (Corpus scriptorum historiæ byzantinæ).
• 1680, fu pubblicata a Parigi l’Historia Byzantina, scritta da Du Cange, che contribuì alla iniziale diffusione dell’uso del termine “bizantino” che successivamente si diffuse tra gli autori illuministi francesi come Montesquieu, tutti estremamente critici nei confronti di quell’Impero cristiano e della sua struttura politico-religiosa. [13]
In definitiva, coloro che gli storici moderni chiamano “Bizantini” definivano loro stessi “Romani” pur se di lingua greca: i Selgiuchidi o Selgiucidi che avevano costruito l’Impero ottomano e conquistato Costantinopoli, difesa strenuamente e coraggiosamente, fino alla morte sul campo, da Costantino XI, li chiamavano egualmente “Romani” e fondarono il sultanato di “Rūm”, cioè dei romani, mentre gli occidentali erano definiti Latini, sia in rapporto alla lingua latina trasformata ecclesiasticamente, sia per il dominio della Chiesa in Italia e in Europa.
Nel 1453, dunque, Costantinopoli cade in mano ai Turchi Selgiucidi di Maometto II: l’Impero è finito. Costantino XI, ultimo Imperatore, della dinastia dei Paleologhi (dinastia greco-italiana) Signori di Morea (Mistrà) e Costantinopoli, Signori del Monferrato, tra i cui bisnonni e trisavoli sono anche membri della famiglia Savoia (e non soltanto serbi e greci) muore difendendo la Città.
Nipote di Costantino XI fu Zoe (Sofia) Paleologo, figlia di Tommaso – fratello minore di Costantino XI, riconosciuto Imperatore d’Oriente dal Papa Paolo II, quando sbarcato a Roma proveniente da Corfù ove si era rifugiato (dopo la conquista del despotato di Morea nel 1460 da parte dei turchi), fu ricevuto con tutti gli onori dal Papa.
Alla scomparsa di Tommaso, le pretese imperiali furono trasmesse al figlio Andrea e, dopo la morte di questi, a Rogerio, fratello minore di Andrea. In realtà, sia Andrea, sia Rogerio, rappresentarono malamente la loro eredità di principi imperiali, sicché il papa Paolo II – su suggerimento del Cardinale Bessarione, intellettuale finissimo e neoplatonico della “Scuola di Mistrà” – propose il matrimonio fra Zoe (Sofia) Paleologo e Ivan III. Zoe era figlia di Tommaso, quindi detentrice dopo i fratelli dell’eredità imperiale.
Ivan III, principe di Mosca, poté rivendicare per la sua Russia il titolo di Terza Roma. Tra il 1523 e il 1524, il vescovo Filofej scrive al Gran Principe di Mosca e lo esorta a riunificare le province cristiane-ortodosse già parti dell’Impero d’Oriente: “Due Rome son cadute, la terza sta e una quarta non vi sarà”.
Ivan IV (Ivan il terribile) farà sua l’esortazione di Filofej e, nel segno dell’Impero d’Oriente, della Nuova Roma, darà vita alla Grande Madre Russia rivendicando la sua eredità, anche di fronte ai sovrani absburgici che si fregiavano del titolo di Imperatori del Sacro Romano Impero, per nulla romano e tantissimo catto-germanico sud-orientale.
Nel periodo in cui Zoe Paleologo va in sposa a Ivan III (1472) in Italia è attiva l’Accademia Romana di Giulio Pomponio Leto [14] (letterato e scienziato insigne, di origine calabre-lucane), figlio naturale del principe Sanseverino. Giulio Pomponio Leto si prefigge la Restauratio Romana. Lui stesso assume nell’Accademia il titolo di Pontifex e gli aderenti assumono nomi romani. Egli considera l’Impero d’Oriente come romano e non greco.
«[…] Certo, Pomponio aveva per la sua Roma, per la dèa del mondo, a cui nulla è pari nè secondo, un culto fanciullescamente sublime. Un suo epigramma, conservato dallo zibaldone di Marin Sanudo, esprime quest’affetto con tutta la forza di un entusiasmo ingenuo e sincero: Roma triu[m]pha[n]tes inter celeberrima ge[n]tes Terraru[m] domitrix imperiale caput. Bisogna poi sentire, com’egli parla di Roma nei “Cesari”, mentre la dipinge, affranta, devastata dagl’invasori, orbata del suo primato mondiale, ridotta ad una vasta desolazione, mentre narra la fine miseranda dell’Impero d’Occidente e l’inglorioso tramonto dell’Augustulo: “Haec sunt tua monimêta parês Romule esclama Pomponio haec est illa aeterna urbs [...] quae undiq[ue] victo pene orbe advectos triûmphos recoepit cuius imperiû occidêtis oceano, [et] Trânstygritanis regnis terminatû. Tu ne illa Roma ad quâ quot sût sub coelo gêtes, côvenire ius erat, quæ înumerabiles Colonias emisisti sed iâ civili intestinoq[ue] odio eo lapsa es, ut honorificêtior habereris, si nomen tuû tantûmodo extaret. Quoniâ dissentio[n]e partiû, [et] adsidua vastatio[n]e Romani agri, ita a tuis p[rae]sertim dilaniata es, ut exactâ vetere pomerio mutilatâq[ue] in Campo vix côsistentê, nostra aetas nô sine lachrymis côspiciat. Auget p[raeterea dolorê, q[uod] qui praesunt, licet velint, adiumentû t[ame]n ferre nô possunt”. E più sopra, narrate le tristi vicende dell’Augustulo, l’umanista osserva: “in eo sanctissimû Augustor ‘ cognomê memorat[ur] et si Iustinianus postea iura vindicavit neminê purpura [et] diademate insignitû ipse [et] alij qui secuti sunt principes occidenti præfecerût. Gothi ab Augustulo ad Iustinianû regnû tenuere. Mira res, ne q[uo]d integrû maneret defecit cognomê Augustorû in uno côsule Basilio, cû consulat ‘ antea duos [sic.1. duorum] fuisset q[uo]d scilicet fore portêdit urbis Ro. excidiû. Haec sunt Tite Arunti quae tu ante aliq[uo]t secula p[rae]dixisti, ex Romuli Vulturibus utrû confusus fuisset nûerus, ne quis tutelâ vinciêdo , iacturâ p[er] oraret | Matheseos peritus homo îvenit rê Sacerdotû vitio turbatâ nec clavi in pariete Minervae tâ liquido côstitere nec annales sub titulo consulû tenere numerû potuerût”. È più che naturale, per un uomo dello stampo di Pomponio, l’intenso sentimento di romanità, talvolta molto ingenuo ed un po’ ridicolo, il modo orgoglioso col quale egli chiama Romolo “parens noster”, e “nos” gli antichi Romani, gli scatti d’un patriottismo romano che gli fanno non di rado dimenticare la solita serena equanimità; meno ovvio è il fatto della trasfusione di questo sentimento e di questo patriottismo anche sull’impero dei Romei d’Oriente. Lo scienziato, di cui si volle fare il paladino d’un antiellenismo ad oltranza, chiama invece senz’altro “Imperium Romanum” la Bisanzio di Foca, pur dolendosi amaramente che questo pomposo epiteto fosse stato ridotto ormai quasi ad un vano nome senza contenuto. Foca è però per lui sempre l’Imperatore, ed i nemici che gli fanno guerra, sono “Romanor ‘ hostes”. Non parliamo poi di epoche anteriori: i trionfi di Giustiniano e di Belisario vengono descritti colla stessa mal celata passione, che sgorga, prepotente e festosa, dalle maravigliose pagine del commento di Floro, nei momenti ove Pomponio illustra le maggiori glorie della Repubblica, le gesta di uno Scipione Africano, e d’un Emilio Paolo» [15].
Zabughin, nei suoi due volumi dedicati a Giulio Pomponio Leto, ci informa sui due viaggi da questi compiuti:
«[…] Il suo insegnamento venne interrotto da sole due assenze, tutt’e due brevissime, quantunque dovute a viaggi nei paesi d’oltralpe, nel 1479-80 il primo, nel 1482-83 il secondo. Difatti, il grande periplo d’Oriente, nel quale l’umanista visitò la Polonia e la Russia meridionale, seguendo probabilmente la solita strada commerciale che da Cracovia e dalla così detta Russia scarlatta (l’odierna Galizia orientale ) conduceva alla foce del Dniepr ed al mar Nero e ritornando poi per l’Egeo alla sua Roma, non durò più d’un anno. Poco sappiamo di questo viaggio, e […] il Pontefice, desideroso di arricchire di “buoni libri” la biblioteca da lui fondata “pro publica utilitate” presso il Vaticano, ordinava al porporato (il cardinale Osia di Podio) di trovarne in Germania ove questi andava nella qualità di legato de latere per assistere alla dieta di Norimberga, affidando quest’incarico a varie persone del suo seguito (aliquos ex tuis), e specialmente a Giambattista, vescovo di Fermo ( G. B. Capranica, il Pantagato, la cui vecchia amicizia invitò anche il Leto a sobbarcarsi al lungo e faticoso viaggio), nonchè al “diletto figlio Pomponio Balbo”, i quali, assieme ai loro compagni, non sappiamo se umanisti o semplici amanuensi, la cui scelta incombeva al cardinale, senza che il breve accenno ad una qualunque limitazione del loro numero, avevano pieni poteri per entrare liberamente in tutte le biblioteche dei monasteri, delle chiese e di altri siti “ipsius Germaniae” e farvi trascrivere quanti e quali codici volevano. Ora, Pomponio tace completamente ed ostinatamente di questa missione filologica, che pur era lo scopo ufficiale del suo viaggio, e per la quale egli, probabilmente, era stato pagato. Nonbasta: mentre egli si dilunga coi suoi allievi sulle bizzarre abitudini dei fibri del mar Nero, sui vari usi che gli Sciti fanno dell’avena, sulla slitta russa, sulla lunghezza delle giornate estive in Iscitia, sul modo speciale, usato da quei popoli per preparar le frutta secche, non una parola, seppur incidentale, non un, anche fuggevole, rammenta una biblioteca da lui visitata, un codice scoperto e fatto copiare [...] Neppur un’accenno alle biblioteche, ai codici, agli scrittori sconosciuti salvati dall’oblio, a ciò insomma che fecero Poggio ed Enoc Ascolano e che non fece, pur dovendolo, Pomponio! V’è di più: neppur un lontano ricordo di viaggi o gite nella Germania propriamente detta: sta di fatto, che, mentre il cardinale legato si avviava verso la Franconia per raggiungervi i membri della dieta imperiale, Pomponio non sappiamo se solo od in compagnia di Pantagato, si staccò dalla comitiva, appena valicate le Alpi, e, sfiorando soltando i paesi di lingua tedesca, seguì la strada, so- lita ad esser percorsa dai viaggiatori da e per la Polonia , indi rifece in gran parte nel senso inverso , il giro compiuto dieci anni prima da Filippo Callimaco, viaggiando però con molta rapidità per poco non affogò nel Mar Nero, che attraversava d’inverno e, tra il gennaio e l’aprile 1480, “suam Romam cuius ob iucundissimam et honoratissimam Romanorum civium (a quibus ut numen semper cultus est) consuetudinem desiderio vel maximo tenebatur avide revisit”» [16].
Perché, Pomponio, mostra tanta riservatezza sui suoi viaggi verso la Russia? Doveva, Pomponio, forse, incontrare esponenti del principato di Mosca ovvero, scienziati e studiosi della terza Roma, della Schola di Mistrà (o Morea, l’antica Sparta, di cui i Paleologo erano stati despoti) che a Mosca avevano trovato protezione? Come sappiamo, Zoe Paleologo era sposata a Ivan III, matrimonio voluto dal Papa Paolo II (nel 1469 e celebrato nel 1472), ma su ispirazione del Bessarione.
Bessarione, nato a Trebisonda forse nel 1403, aveva studiato filosofia, matematica, alla scuola di Mistrà con Gemisto Pletone. Decisamente amante di Platone, la sua Casa a Roma divenne cenacolo dei neoplatonici italiani e greci. Molti di tali studiosi erano membri dell’Accademia Romana di Giulio Pomponio Leto, che fu lui stesso direttamente in contatto col Bessarione.
Bessarione fu abilissimo Diplomatico e strenuo sostenitore della necessaria riconquista di Costantinopoli, dopo la caduta dell’Impero nel 1453. Il matrimonio di Zoe Paleologo con Ivan III fu concepito in termini politici: se Ivan III ereditava per la sua corona, mercè il matrimonio, l’Impero quale Terza Roma, Mosca avrebbe potuto e dovuto rifondare l’Impero, riconquistandolo ai Turchi.
Fu Bessarione ad accompagnare a Mosca Sofia (Zoe) Paleologo per il matrimonio formale con Ivan III, dopo quello celebrato per procura a Roma nel 1472. Il mondo ortodosso rifiuta il termine “bizantino”. Secondo varie pubblicazioni:
«Nel mondo greco attuale come nel mondo russo e orientale in genere, non si tiene conto affatto di questa denominazione “occidentale”, diffusa in particolar modo nella cultura e nel mondo anglo-sassone. Nella cultura e storiografia orientale come nell’uso comune dei molti paesi che facevano parte dell’antico impero, non si utilizza il termine “bizantino”, ma termini derivati strettamente dalle parole originali. Questo termine “bizantino” è invece inteso come un’espressione intenzionalmente dispregiativa di parte occidentale, nei confronti di quell’Impero romeo, dal mondo cristiano orientale greco-russo ad esso ancor oggi storicamente legato. La Chiesa ortodossa di Costantinopoli come quella di Mosca, tutti i Patriarcati, rifiutano decisamente il termine “bizantino” e mantengono ancora oggi inalterati l’uso dei termini storici originali» [17].
Eredità contesa, Eredi non nominati.
Nel corso dei secoli, non vi è stato Regno o nuovo Impero che – in Europa – non abbia tentato di darsi una apparenza “romana”. Nei fatti, dall’800 d.C. a tutta la prima metà del XX secolo, attraverso le lotte fra Papato e Impero, i movimenti e le rivoluzioni del XVIII secolo e del XIX secolo, le due guerre mondiali, tutte quelle Potenze economiche che arrivarono a stabilirsi come Nazioni (Regni) allungarono le loro mani sulle terre al di là dell’Atlantico, nei mari del nord, come in Medio ed estremo oriente, fino all’Oceano indiano e fino al Pacifico: tutti a tentare di costituirsi in Impero e,subito dopo, adottare – in un modo o nell’altro – titoli e simboli derivati dalla Roma repubblicana, dalla Roma dei Cesari: Spagna, Olanda, Francia, Inghilterra, Austria, Germania (nel XV e XVI secolo, persino la Polonia estendeva il suo regno entro quei territori russi che costituivano l’attuale Ucraina).
I matrimoni, le parentele, furono il veicolo per trasmettere il titolo di Imperatore (del SRI) dai Franchi fino a Carlo V e quindi direttamente all’Austria. Mentre l’Inghilterra già agli inizi del XIX secolo consolidava il suo Impero e la Germania lo realizzava dopo la vittoria di Sedan.
Già la parola Impero bastava – nella logica della Compagnia delle Indie, della Compagnia Olandese di Giava; nella logica della “fedeltà” al trono e all’altare e dell’intangibile diritto sovrano – a donare la tanto bramata dignitas romana (peraltro, mai effettivamente posseduta da nessuno dei nominati di cui sopra).
Senonché, una cosa è l’impero economico, una cosa è l’Imperium come espressione del Fatum.
Quello economico fu di tanti, ma se l’Imperium voluto dal Fatum fu e resta della Romanità prisca, come più volte abbiamo affermato, non è detto che proprio il Fatum di Roma non possa servirsi di…eredi riconoscibili per volontà del Nume; tale “missione” restauratrice, per vie ignote ai mortali potrebbe essere stata affidata proprio alla Russia, quella Russia già costantinopolitana per acquisizione dinastica e che oggi fa proprio il disegno di una Europa da Lisbona a Vladivostok (i due punti estremi dall’Europa, da occidente a oriente).
E sui sentieri imprescrutabili del Fatum vennero già i Longobardi, penetrati in Italia nel 568 d.C. – unico popolo germanico a italianizzarsi nell’epoca del loro dominio più stabile, durato poco più di due secoli, come riconosciuto anche dal Machiavelli – che avevano tentato, riuscendovi in parte, a costruire una sorta di Unità italiana romano-longobarda in cui l’elemento romano aveva finito per diventare quello primario nel diritto e nell’organizzazione. Sogno stroncato dal “globalismo ante litteram” del potere temporale dei papi, sostenuto dalla potenza militare dei barbari Franchi.
Abbiamo, infatti, già all’inizio di questa disamina, annotato che molti c.d. tradizionalisti che si appellano alla tradizione dell’Impero, dimostrano una notevole confusione di comodo e finiscono, mentre parlano di impero, per diventare sostenitori del temporalismo papista (almeno in Europa).
Quale romanità si può mai ravvisare in un Carlo Magno, in un Federico I Barbarossa, in un Absburgo?
Chi ne è convinto evidentemente mistifica la romanità. Quali somiglianze è mai possibile intravvedere fra un C. G. Cesare Augusto, o un Flavio Giuliano, e gli “imperatori” catto-barbarici delle rive danubiane o di quelle del basso Reno e dell’Issel che popolarono Vindobona e Lutetia (Parisia)?
L’Impero romano d’Occidente e l’Impero romano d’Oriente si differenziarono al punto tale che da un punto di vista più ‘stretto’ nessuna delle due parti poteva assumere di essere l’unica ROMA; ma, mentre in occidente l’aggettivo “romano” finì per definire solo la Chiesa e le sue creature politiche, in oriente un tale aggettivo rimase qualificante per l’istituzione, il popolo, l’imperatore, a mente della primiera divisione che fece di Arcadio (pur figlio di Teodosio I) il primo Signore dell’Impero d’Oriente (con tutte le sue prerogative sacrali).
IIª Sintesi
Vi sono sufficienti ragioni per cui l’Impero romano d’oriente possa dirsi in eredità russa per trasmissione dinastica:
• Vi sono sufficienti ragioni per cui gli odierni circoli culturali tradizionalisti russi – seppur nominalmente cristiani ortodossi, costantinopolitani in origine, di fatto neoplatonici e con contenuti di studio a carattere esoterico – attivi sin dagli anni ’60 e che hanno visto la partecipazione di personalità di ogni etnia, fede e provenienza politica, possono assumersi il compito di far da squilla per una ripresa “multipolare – nazionale – identitaria - imperiale” in primis nei confronti di un’Europa occidentale ormai dissolta, annullata nell’obbrobrio dell’ipercapitalismo finanziario globale a direzione monopolista atlantista, tanto da non essere capace di alcuna Ἐλευθερία e nemmeno di autonomia (culturale, politica, economica). Come è stato detto: la rivoluzione di domani dovrà essere segnata dall’anticapitalismo, quindi dalla vittoria dello Spirito sulla più bruta materialità. In ogni nazione, in vista di una armonia imperiale di pace, di collaborazione, di rispetto, fra i popoli, la “rivoluzione” contro il nemico dell’uomo condurrà a quella pax universalisfrutto della conoscenza, dell’amicizia, di contro al sistema della predazione e della sopraffazione operata dal Mercato Unico.
• Al netto di alcune valutazioni nate in un precedente ambito nazional-bolscevico, OGGI RIGETTATE, circa il magismo operante nei circoli tradizionali, in specie italiani o di adepti stranieri operanti in Italia, il neoplatonismo russo attuale riscopre e rivaluta proprio la tradizione operativa che – e di nuovo – soprattutto in Italia – si affermava sin dalla fine del XIX secolo e fino ai giorni nostri, come retaggio rinascimentale e del XVIII secolo: quando appunto ritorna a farsi sentire l’Idea di Nazione come comunità di popolo, di romanità classica, di ellenicità. La RUSSIA è EUROPA e, anche nella considerazione di altera pars, l’assunzione dell’eredità costantinopolitana – se davvero convinta e sincera come appare – le impone una scelta, peraltro caldeggiata dagli stessi Circoli culturali, che già fu di Ivan III, di Ivan IV e così via.
• La Nuova Russia si risveglia avendo in mira se stessa come “Stato Imperiale” e rivendica la sua eredità romana del XV-XVI secolo. […] Virgilio scrisse: «Roma non cesserà di essere Roma: Giove non le assegna limiti, né di durata temporale né di spazio» [18]. Così: «[…] mentre i russi confidano nella saldezza della Terza Roma, nulla impedisce che l’attuale megalopoli – e colonia america – che porta il nome di Roma risorga e torni ad essere la sede della prima Roma imperiale, capitale d’Europa» [19]. Il riferimento alle parole virgiliane riportate da Maurizio Murelli è tanto nel Canto I quanto nel VI dell’Eneide, il canto più iniziatico dell’intera opera:
CANTO I
Romulus excipiet gentem et Mavortia condet moenia
Romanosque suo de nomine dicet.
his ego nec metas rerum nec tempora pono: imperium sine fine dedi.
Quin aspera Iuno, quae mare nunc terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius referet,
mecumque fovebit Romanos, rerum dominos gentemque togata [20].
CANTO VI
[…] In compagnia de l’avo
Romolo se ne vien, di Marte il figlio,
Di Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
De la stirpe d’Assáraco un rampollo.
Questi, figlio, sarà quel grand’eroe,
Onde i suoi primi glorïosi auspicii
Avrà l’inclita Roma, quella Roma,
Che, sette monti entro al suo cerchio accolti,
Tanto si stenderà, che fia con l’armi
Uguale al mondo, e con le menti al cielo:
Roma di così prodi e chiari figli.
Fine.
Note
*Le note dell’autore, Dott. Prof. Claudio Pirillo, sono seguite dalla sigla [N.d.A.]; le note dell’editor, Diego Cinquegrana, sono seguite dalla sigla [N.d.C.]; ulteriori note di altri collaboratori sono seguite dal nome e cognome (o le iniziali) del collaboratore stesso.
[1] La frase intera dalla quale è tratto l’inciso recita: Afflicti supliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae ac maleficae. Trad. “Sottopose a supplizi i Cristiani, una razza di uomini di una superstizione nuova e malefica”. Gaio Svetonio Tranquillo, Vita dei dodici Cesari, Neronis XVI, 2. [N.d.C.].
[2] Il Cristianesimo essenico si riferisce all’influenza della setta degli Esseni sul primo cristianesimo, caratterizzata da pratiche ascetiche e comunitarie. Il Cristianesimo niceano è invece quello codificato nel Concilio di Nicea (325 d.C.), che stabilì i principi fondamentali della dottrina cristiana ortodossa, in particolare la natura divina di Cristo e il concetto di Trinità. Per approfondimenti: Atanasio, Il Credo di Nicea, Città Nuova, Roma, 2001. [N.d.C.].
[3] Dal greco ἰσαπόστολος (uguale agli apostoli). Titolo degli imperatori di Bisanzio quali vicari di Dio in terra. [N.d.C.].
[4] Il profondo radicamento del culto micaelico nell’Impero Bizantino rappresenta un affascinante caso di studio per comprendere i processi di sincretismo religioso tra paganesimo e cristianesimo nel Mediterraneo tardoantico. La venerazione dell’Arcangelo Michele nell’oriente cristiano, si caratterizza per una significativa sovrapposizione con precedenti culti solari, in particolare quello di Apollo, evidenziando una continuità cultuale che si manifesta sia negli aspetti simbolici che nelle pratiche rituali. Il carattere solare di San Michele emerge con chiarezza nell’analisi comparativa con il culto apollineo. Come Apollo rappresentava le potenze celesti in opposizione alle forze ctonie – emblematica la sua vittoria sul serpente Pitone a Delfi – così l’Arcangelo Michele viene rappresentato come vincitore sul drago, in una chiara trasposizione cristiana dello stesso mitologema. Questa sovrapposizione simbolica si riflette anche nella geografia sacra: i principali santuari micaelici in Europa occidentale seguono un particolare allineamento, lo stesso che unisce i grandi santuari apollinei di Delo e Delfi. Il caso del santuario garganico di San Michele offre un esempio paradigmatico di questa stratificazione cultuale. Prima della cristianizzazione, la grotta ospitava il culto dell’indovino Calcante (μάντις – che aveva ricevuto il dono della divinazione da Apollo), come attestato da Strabone che descrive la presenza sul territorio di “due santuari, uno sulla cima più elevata dedicata a Calcante [...] l’altro in basso, a Podalirio (ἰατρός)”. La pratica dell’incubatio, documentata in entrambi i culti pagani, trova continuità nella tradizione cristiana: i fedeli continuarono a dormire nella grotta per ricevere responsi divini e guarigioni, ora attribuiti all’intercessione dell’Arcangelo “iatromante solare” – Apollo (divinità della profezia) → Calcante (suo sacerdote/indovino) e Podalirio (figlio di Asclepio/guaritore) → San Michele (nuovo intermediario divino). L’aspetto terapeutico, centrale nel culto di Podalirio – figlio di Asclepio e rinomato guaritore – viene assorbito nella venerazione micaelica attraverso il culto delle acque. La “stilla” miracolosa che sgorgava dalla roccia della grotta garganica, rappresenta una chiara continuità con la tradizione iatromantica precedente, testimoniata dal “fiumicello le cui acque guariscono tutti i morbi del bestiame” menzionato da Strabone. La dimensione iniziatica del culto si manifesta attraverso elementi simbolici ricorrenti: la Montagna: il Monte Gargano, come altri luoghi di culto micaelico (Mont Saint-Michel), rappresenta l’axis mundi, punto di connessione tra terra e cielo; la Grotta: spazio liminale per eccellenza, luogo di passaggio tra mondo ctonio e dimensione celeste; l’Acqua: elemento purificatore e rigeneratore, medium della potenza taumaturgica divina. L’analisi del culto micaelico nella sua dimensione solare e taumaturgica – qui esposta per sommi capi – rivela un complesso processo di assimilazione e trasformazione di precedenti tradizioni religiose, processo che trova particolare risonanza nella Chiesa ortodossa russa, dove l’Arcangelo Michele mantiene ancora oggi un ruolo centrale come protettore celeste e guida spirituale, testimoniando la persistenza e l’adattabilità di questi antichi elementi cultuali. Per approfondimenti: Alexandros Tsakos, The Archangel Michael Beyond Orthodoxies, Bloomsbury, New York, 2025. [N.d.C.].
[5] Il rapporto tra Cristo e il Sol Invictus rappresenta un importante esempio di sincretismo religioso nel periodo tardo-imperiale romano. Il culto del Sol Invictus (Sole Invitto) divenne culto ufficiale dell’impero romano sotto Aureliano nel 274 d.C. e nel periodo di transizione tra paganesimo e cristianesimo, molti attributi e simbolismi solari furono trasferiti alla figura di Cristo, ivi inclusa la collocazione della natività a ridosso delle festività legate al solstizio d’inverno. Nell’iconografia paleocristiana, Cristo venne spesso rappresentato con attributi solari: l’aureola (simbolo solare), il carro solare, i raggi luminosi. Cristo venne identificato come “Sole di Giustizia” (Sol Iustitiae) e “Luce del Mondo”, riprendendo la simbologia della luce divina presente nel culto solare. La direzione est delle chiese cristiane primitive riflette l’orientamento verso il sole nascente, simbolo della resurrezione di Cristo. Questa sovrapposizione simbolica facilitò la transizione dal paganesimo al cristianesimo, permettendo ai convertiti di mantenere alcuni elementi familiari del culto solare reinterpretati in chiave cristiana. Questo processo è particolarmente evidente in alcuni mosaici paleocristiani, dove Cristo viene rappresentato con attributi tipici del Sol Invictus, come nella necropoli vaticana. L’assimilazione fu così profonda che ancora oggi molti elementi della liturgia e del simbolismo cristiano mantengono tracce di questa origine solare. [N.d.C.].
[6] La Vergine Maria ha assorbito molti attributi delle dee pagane precedenti: da Diana ha ereditato l’aspetto lunare e la verginità sacra; da Venus Urania (Venere celeste) la purezza spirituale e il ruolo di regina celeste; da Iside il ruolo di madre divina e protettrice, oltre all’iconografia che la ritrae mentre allatta il bambino divino. [N.d.C.].
[7] Corneliu Zelea Codreanu, leader della Guardia di Ferro rumena, utilizzò le figure di Cristo e San Michele Arcangelo come simboli del suo movimento. In particolare, San Michele era il patrono della Guardia di Ferro, rappresentando l’ideale del guerriero spirituale. Per approfondimenti: Constantin Iordachi, Charisma, politics and violence: the legion of the “Archangel Michael” in inter-war romania, in Ideologies and National Identities, Central European University Press, Budapest 2006. [N.d.C.].
[8] Motto dell’Impero d’Oriente: Basiléus Basiléōn, Basiléuōn Basileuòntōn. “Re dei Re, Regnante dei Regnanti” (Sotto i Paleologi, 1259-1453). [N.d.A.].
[9] Basilèus tôn Rhōmàiōn: “Imperatore dei Romani/Romei”.
[10] La battaglia del Frigido (394 d.C.) fu uno scontro decisivo tra l’imperatore cristiano Teodosio I e l’usurpatore Eugenio, sostenuto dai pagani. La vittoria di Teodosio segnò il definitivo trionfo del cristianesimo come religione dell’impero. [N.d.C.].
[11] Istanbul deriva dal greco medievale εἰς τὴν Πόλιν (eis tēn pólin), che significa “nella città”. Col tempo, questa frase greca venne adottata dai turchi come “Istanbul”. [N.d.C.].
[12] L’Editto di Tessalonica (380 d.C.) di Teodosio I rese il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’impero. Per i pagani comportò il divieto dei sacrifici, la chiusura dei templi e la confisca dei beni dei santuari. [N.d.C.].
[13] Il Corpus scriptorum historiæ byzantinæ di Hieronimus Wolf (1516-1580) fu uno dei primi tentativi sistematici di raccolta e studio delle fonti bizantine, fondamentale per lo sviluppo della bizantinistica; La Byzantine du Louvre fu un’importante edizione delle fonti bizantine curata da Philippe Labbe (1607-1667), parte del più ampio progetto del Corpus scriptorum historiæ byzantinæ parigino; L’Historia Byzantina di Du Cange (1610-1688) è un’opera monumentale che comprende sia la storia bizantina che un glossario del greco medievale, ancora oggi riferimento fondamentale per gli studi bizantini. [N.d.C.].
[14] Giulio Pomponio Leto (1428-1498) fondò l’Accademia Romana, centro fondamentale dell’Umanesimo italiano. L’accademia si dedicava allo studio dei classici e alla riscoperta della cultura antica, ma fu anche sospettata di paganesimo e temporaneamente sciolta da Paolo II. Per approfondimenti: Maria Accame Lanzillotta, Pomponio Leto. Vita e insegnamento, Tored, Tivoli, 2008. [N.d.C.].
[15] Vladimiro Zabughin, Giulio Pomponio Leto, Saggio critico, La Vita Letteraria, Roma 1909, pp. 239-240, (nb: il grassetto è nostro). [N.d.A.].
[16] Ibidem, pp. 193 e seguenti. [N.d.A.].
[17] Per quanto precede, vedi: Mark Cartwright, tradotto da Giovanni De Simone, Impero bizantino, su worldhistory.org. «Viene spesso chiamato Impero Romano d’Oriente»; «Invece, nel suo primo periodo [324-610], l’Impero bizantino era ancora effettivamente Impero romano e tutta la sua vita era fittamente contesta di elementi romani. Questo periodo, che si può chiamare sia il primo periodo bizantino, sia il tardo periodo dell’Impero romano, appartiene alla storia bizantina non meno che alla storia romana. I primi tre secoli della storia bizantina – o gli ultimi tre secoli della storia romana – sono una tipica età di transizione che conduce dall’Impero romano all’Impero bizantino medioevale, in cui le forme di vita dell’antica Roma man mano si estinguono e cedono il posto alle nuove forme di vita dell’età bizantina». (Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, p. 27.). Ostrogorsky colloca la fine del periodo tardo-romano dell’Impero bizantino nel 610, anno dell’ascesa di Eraclio. L’enciclopedia Il mondo bizantino e la The Prosopography of the Later Roman Empire collocano invece la fine del periodo tardo-imperiale nel 641, sempre con Eraclito ma alla sua morte di Eraclio. Giorgio Schirò, Breve storia dell’Impero Bizantino, su liceoreginamargherita.edu.it, 2018. URL consultato il 2 settembre 2024. (EN) Speros Vryonis, The Decline of Medieval Hellenism in Asia Minor and the Process of Islamization from the Eleventh through the Fifteenth Century, ACLS Humanities, 2008, p. passim. (EN) Clifton R. Fox, What, If Anything, Is a Byzantine?, su romanity.org. Url consultato il 19 settembre 2023 (archiviato dall’url originale il 5 aprile 2023). [N.d.A.].
[18] Maurizio Murelli, Premessa alla lettura del libro – L’amore per l’Europa di Darya Dugina. In Darya Aleksandrovna Dugina, Teoria Europa, AGA Editrice, Milano, 2024, p. 20. [N.d.A.].
[19] Ibidem.
[20] «Romolo raccoglierà questa stirpe e fonderà le mura di Marte e chiamerà Romani dal suo nome. A costoro non pongo né limiti di spazio né di tempo: ho dato loro un impero senza fine. Anzi, la fiera Giunone, che ora con la paura tormenta il mare, le terre e il cielo, muterà in meglio i suoi propositi e con me favorirà i Romani, padroni del mondo e gente togata». [N.d.C.].