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Camions

€14.00

Adolfo Baiocchi

pp. 136

Marzo 2017

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DALLA PREFAZIONE (di Giacinto Reale)

 

Si può affermare con una certa sicurezza che il movimento delle squadre se ebbe a Milano, con Mussolini ed il gruppo gravitante intorno al “Popolo d’Italia”, il suo vertice politico, conobbe in Toscana ed in Emilia i maggiori successi in termini di adesioni ed attività.

Si trattò, però, di due tipi di squadrismo diversi nei caratteri e nelle figure più rappresentative. Guascone, con uno spiccato gusto per lo scherzo (anche feroce) quello toscano — che pure assunse rilevanza numerica di tutto rispetto, tanto che, secondo i dati forniti da Marco Palla, nel maggio del 1922 «erano concentrati in Toscana più di un quinto dei fasci e circa un sesto dei fascisti di tutta Italia» —, più politico quello emiliano, dove già nel ’21 prese corpo il sindacalismo fascista.

È anche per questo che il primo non espresse alcuna figura veramente importante nel Fascismo (gli stessi Renato Ricci e Carlo Scorza possono considerarsi dei comprimari, mentre Pavolini era stato solo uno squadrista diciassettenne, come tanti altri), nel secondo, invece, emersero Arpinati e Balbo, Grandi e Muti, giusto per fare i primi nomi che vengono a mente.

Certo, squadrismi importanti si ebbero anche in Polesine, a Trieste, Napoli e nelle Puglie, ma a “tracciare il solco” fu quello toscano, a cominciare dalla “proto-spedizione” di Montespertoli dell’ottobre del 1920, che presentava già, in nuce, tutti i caratteri dello squadrismo che verrà.

Nella stessa Toscana, inoltre, differenze ci furono, per esempio, tra il primo fascismo fiorentino, segnato dalla presenza di personaggi come Dumini, Banchelli e Frullini, ex combattenti ed “uomini di mano” prestati alla politica in un periodo tempestoso, quello carrarese, dove a farla da padroni erano cavatori e scalpellini del marmo, guidati da Ricci, figlio di cavatore egli stesso, e quello senese, dove, nella forte componente degli studenti della locale Università emerse Giorgio Alberto Chiurco, destinato a diventare chirurgo di fama, oltre che politico e storico.

Proprio nel Senese agì anche Adolfo Baiocchi, che era stato volontario di guerra, ferito, decorato di medaglia d’argento, promosso sottotenente e prigioniero nel campo di concentramento di Terezin, in Bosnia.

Dello spirito che lo animava, nelle giornate del “maggio radioso”, ci ha lasciato una bella testimonianza nel suo Generazioni:

«Le due stanzette dell’ufficio interventista di Siena, in piazza S. Francesco, la sera del 24 maggio erano affollate di giovani. L’ansia di quelle giornate epiche era divenuta quella sera tormento, e le discussioni fervevano, improntate alle più grandi speranze, quando, verso mezzanotte, un uomo sudato, col respiro mozzo per aver corso, entrò come un bolide urlando: “È arrivato il telegramma, è arrivato il telegramma della dichiarazione di guerra!”

Le discussioni cessarono e vi fu un attimo di completo silenzio: la notizia aveva sbalordito tutti. Poi una voce urlò: “Viva l’Italia, viva il Re!” I presenti, in uno slancio frenetico, risposero concordi al grido: “Viva l’Italia, viva il Re!” Il segretario del gruppo, un laureando in chimica — bruno, alto, asciutto, viso dantesco, grande cravatta nera svolazzante — salì su un tavolo per arringare i compagni: “Amici, il nostro voto è stato esaudito. Stanotte stessa noi chiuderemo questo locale testimone della nostra passione. Il dovere di ognuno di noi non è più qui, non è nemmeno presso le nostre famiglie, ma è quello di presentarci immediatamente al Distretto militare. Dio faccia che la gloria sia con voi!”E tutti i presenti gridarono, ad una voce: “Al Distretto!” Uscirono insieme nella notte. In quell’attimo risuonò, cupo, il campanone della torre del Mangia. All’improvviso, grave rintocco, la gente si svegliò, le finestre si illuminarono e la terribile magica parola strinse i cuori: “La guerra, la guerra!”.

I caffè che erano ancora aperti vennero quasi subito chiusi, le strade si fecero deserte e buie. Da via dei Rossi avanzò compatto il gruppo degli interventisti. Essi cantavano a gola aperta, e il loro canto vinceva i rintocchi della grande campana. La mattina dopo la città era animatissima, come nelle più solenni occasioni. Al primo senso di smarrimento era subentrato un grande entusiasmo ed una folla enorme stazionava davanti alle vetrine dove erano stati affissi i telegrammi delle prime notizie di guerra: “L’Esercito italiano, passato il confine, ha occupato Dolegnano e Ala”.

Dalla folla partivano grida di evviva. Taluni passanti dicevano a gente anche sconosciuta: “Hai visto? I nostri vanno avanti!”».

Le foto dell’epoca ce lo mostrano non molto alto, grassottello, con due occhi vivaci, preferibilmente atteggiati al sorriso, forse diverso nell’aspetto da quello che si sarebbe immaginato per uno che, tornato in Patria, fu fondatore del Fascio di Abbadia San Salvatore, nel novembre del 1920, oltre che di altri viciniori ed organizzatore, animatore e capo di squadre, costituite prevalentemente da rude gente di montagna. Quelle stesse squadre che, al solo apparire, intimidivano non solo gli avversari ma anche i pavidi borghesi della città, tanto che l’impressione resterà ben nitida, ancora a distanza di tanti anni, nella memoria di Paolo Cesarini: «Ricordo la gran paura e il chiudere d’usci a Siena, quando si spargeva la voce che arrivavano i fascisti dell’Amiata, che erano picchiatori temuti, o comunque della provincia, magari guidati dal medico o dall’avvocato, ma artigiani, bottegai, piccoli agricoltori, operai, tutta gente minuta, insomma».

Era proprio il caso del nostro Baiocchi, che apparteneva ad una famiglia benestante di Abbadia, ma al suo popolo era vicino — per tradizione familiare, vorrei dire — e ne era ricambiato con affetto: solo a chi ama fermarsi alla superficie delle cose può sembrare strano, per esempio, che il padre Angelo, notabile ed anche sindaco del paese, nel 1929, ai tempi del “martedì nero”, venne arrestato perché ritenuto l’ispiratore di uno sciopero di protesta, per motivi economici, di circa trecento minatori di Abbadia.

Nonostante i suoi tumultuosi trascorsi, Adolfo, dopo la Marcia, fu esponente dell’ala “moderata” del rissoso fascismo senese, ricoprendo, a fasi alterne, incarichi direttivi nella Federazione e venendo eletto deputato nel 1924.

Per comodità di sintesi dirò che, all’interno del Partito, aderì alla corrente “farinacciana”, come la maggioranza di coloro che avevano preso parte all’esperienza squadrista, e diede alla sua azione sul territorio uno smaccato senso campanilistico (dopolavori, istituti di beneficenza, colonia marina, etc.), nella migliore tradizione di questi “ras” locali.

Quando la sua stella declinò, si dedicò al lavoro ed alla letteratura (oltre a questo Camions ci sono anche il già citato Generazioni e Uno dei tanti, sempre dedicati all’esperienza di guerra e squadrista), confermando la sua fede nel Fascismo da volontario in Africa, e cercando di recuperare terreno in politica legandosi alla stella emergente del suo corregionale Galeazzo Ciano, fino alla nomina, nel ’39, a componente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Sarà proprio l’amicizia con Ciano (che qualcuno sospetterà abbia addirittura ospitato nel periodo intercorrente tra il 25 luglio e la consegna ai Tedeschi) a suggerirgli un atteggiamento defilato durante la RSI. Graviterà, comunque, sempre nell’ambiente fascista e post, tanto che il figlio Angelo (battezzato con lo stesso nome del nonno) sposerà Adria Mussolini, figlia di Vittorio.

Personaggio minore del Fascismo, quindi, la cui scelta politica (che sarà poi “di vita”) venne segnata dall’esperienza di guerra, condotta da posizioni interventiste mai rinnegate e dall’irrompere nella tranquilla vita di un paese come il suo della violenza sovversiva nel cosiddetto “biennio rosso”.

(…)

Vi è, nel titolo di questo libro, Camions, un evidente e forte richiamo all’altro Venti su un autocarro di Guido Strumia già ristampato da questo stesso Editore. Una ulteriore testimonianza della rilevanza che, nella pratica e nell’immaginario squadrista, assunse il 18BL, che era stato il mezzo di trasporto principale delle truppe in guerra e, soprattutto, dei manipoli di Arditi prelevati dalle retrovie e portati in prima linea a sconquassare con bombe e pugnali le trincee avversarie, prima dell’arrivo della fanteria.

Commemorato, negli anni a venire, con affetto e quasi “umanizzato”, come è stato scritto, per esempio, in un articolo (che non poteva che chiamarsi “Vecchio Camion”) apparso in occasione della Mostra della Rivoluzione fascista: «Non ricordo chi fece la proposta di porre in una delle sale un camion. Certo egli era squadrista. Infatti non si può scindere il ricordo dei giorni passati da questo carcassone rapido e rumoroso che non è stato mai per noi soltanto un mezzo di trasporto».

Vada per il rumoroso; qualche riserva è però lecito avanzare sul “rapido”. Si trattava, in genere, di residuati di guerra comprati alle aste dell’Esercito da piccoli commercianti, rimessi in piedi alla bell’e meglio, e “prestati” (per qualche ora, non sempre di buona voglia, e soprattutto di domenica, giornata di tregua delle attività lavorative, ma ricca di avventure squadriste) ai richiedenti in camicia nera:

«Immediatamente un uomo, imbacuccato nel pastrano, apparve nella luce, si chinò fra i due fari, e, dopo essersi appoggiato con una mano ai bordi del radiatore, afferrò con l’altra la manovella della messa in moto, facendola girare in fretta, più volte.

Il motore si accese, starnutì, sbuffò, si spense, tornò a scoppiettare, a starnutire, e prese, finalmente a pulsare con ritmo regolare».

Così inizia una delle avventure narrate da Baiocchi, e, perché nessuno si faccia illusioni sulle condizioni nella quale essa si svolge, mi piace leggere due righe di uno dei sapidissimi dialoghi (molto “toscani”) che affollano il racconto:

(…)

Camions procede come un vero saggio di memorialistica squadrista: uomini, luoghi ed episodi sono indicati con esattezza, e comunque sono facilmente riconoscibili per chi ha dimestichezza con il periodo: ai fatti veri della spedizione su Volterra, dell’agguato di Foiano, dell’eccidio di Sarzana si alterna il racconto di episodi di aneddotica squadrista, verosimili se non veri, destinati a far parte di quella tradizione orale che animava le serate di veglia e di attesa, nelle malconce sedi dei primi Fasci.

Ci sono gli squadristi di Abbadia che, di rinforzo ai senesi nell’azione su Castelnuovo Abate si vedono chiedere, all’ingresso nel paese avvolto nella nebbia, la “parola d’ordine” da una voce nel buio. Al silenzio di quelli che non la sanno, perché nessuno gliel’ha mai fornita, inizia il fuoco amico, e poco manca ci scappi il morto.

Divertente, e, per fortuna senza gravi conseguenze è la beffa del 1° maggio, quando, dopo aver sequestrato l’oratore socialista designato per un comizio a Murlo, tocca allo stesso Baiocchi prenderne il posto, concionare per un po’, ossequiato e riverito dai capoccia sovversivi locali, finché, al timido accenno: «La patria, operai, che vi ammonisce di rientrare in voi stessi, di non ascoltare i falsi profeti…» due robuste manacce lo tirano giù dal palco e lo costringono, insieme al suo accompagnatore, ad una fuga precipitosa dalla quale escono piuttosto malconci.

Né mancano i nemici che ricorrono agli espedienti più turpi in quella lotta di strada e senza quartiere: macigni fatti precipitare dall’alto sui camion, fili d’acciaio tesi tra gli alberi per mozzar teste agli imprudenti in piedi sul cassone, fucili micidialmente caricati con sale grosso da cucina e cartucce da cinghiale.
(…)

Erano bei giovanotti, i fascisti! Con la camicia nera aperta sul collo, le maniche rivoltate sugli avambracci venati e muscolosi, il fez a sghimbescio sui capelli bruni che uscivano, simili ad un’ala nera, dando ai volti un’aria sbarazzina e nello stesso tempo marziale… Ma non era solamente il fez che attirava le donne; molti di quei giovani avevano occhi così ardenti, così pieni di fuoco, che non si potevano guardare, e da quella giovinezza si sprigionava un profumo che pungeva e attirava…Passavano per tre i fascisti, in lunghe colonne, cantando. Le loro canzoni erano come le loro musiche, allegre, elettrizzanti; e i canti evocavano le lunghe marce al sole, i bivacchi alla luna, quando i troppi ricordi non lasciano dormire… Le donne guardavano meravigliate, pensando: “Son questi i fascisti, gli incendiari, i sanguinari? Possibile?” e le più giovani ammiccavano sorridendo, e si sussurravano all’orecchio: “Senti come canta bene quel moretto! E che bella bocca!” E più di una arrossiva dietro i vetri.

“O bella di maggio” — disse un fascista mentre passava, a una ragazza affacciata sopra un vaso fiorito — “Me lo getti un fiore?”

Subito una mano staccò dalla pianta il più bel fiore, e lo gettò nella strada. La domanda era stata accompagnata da un sorriso così incantevole! Dall’ alto due occhi lucenti seguirono il giovane inchinarsi a raccogliere il fiore, fissarono un po’ imbarazzati, ma felici, il maschio volto che si schiudeva a ringraziare, come una rosa al mattino, e tremarono al gesto che metteva sulla bocca del moschetto il fiore raccolto».

Che dire? Oggi come ieri, ognuno scelga con chi stare: tra gli assassini nascosti tra le siepi, in agguato, armati di accette, roncole e forconi o tra questi giovanotti che sfilano in allegria, con i fiori che sbucano dalle bocche dei fucili.

Io, di mio, ho già scelto, parecchi anni fa…

Giacinto Reale

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