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La modernità fa mostra di considerare la guerra come punto di passaggio verso la pace. Eraclito il Superbo, invece, pensa alla guerra come alla sostanza, alla quintessenza dell’essere. Quando il più igneo dei presocratici sentenzia: “Pòlemos pànton patèr“, vediamo le porte aperte di Giano spalancarsi sul cosmo. Legge cosmica è la guerra, che decide l’armonia del cosmo. Oltre duemila anni dopo Eraclito, lo stesso Hegel avrebbe affermato che nel gran libro della storia del genere umano le pagine senza guerre sono pagine bianche (e l”album’ non servirà, allora, che per iscrivervi vicende banausiche di progresso). Un pensatore speculativo della controdecadenza, intimamente eraclitèo, Oswald Spengler, avrebbe poi confermato che la vita, in sé, in qualsiasi sua manifestazione, “ist Krieg: “è guerra”, la guerra essendo l’elemento che fonda la realtà, il generatore ‘autogeno’ dell’universo, ciò che lo sostiene e lo sostenta. Pòlemos disegna perciò l’orizzonte trascendentale della realtà. L’essere consiste nel divenire di questo orizzonte, il reale consta del ‘paesaggio’ bellico e in esso si incentra. E il Divino non incombe, dal di fuori, ma sta, immane e immanente, elemento immortale intrinseco in questo orizzonte, così come l’Uomo ne è l’elemento mortale – ma dell’immortale congenere. Ecco che i detti impliciti e dispittosi di Eraclito (il lettore che appartenga alla sua famiglia naturale li indovinerà tuttavia senza difficoltà) suggeriscono la forma in cui la sapienza può comunicarsi all’uomo. Il culmine della stessa filosofia arcaica, radicale, è guerra tra opposti, guerra che intende, ancora, la guerra, pòlemos, la liturgia del contrasto, quale fonte stessa della vita. “Guardare la vita dalla morte”, come volevano – anzi vivevano – i cavalieri giapponesi, i bushi, consapevoli che niente rende felice, feconda l’esistenza come l’affronto della guerra. “Non pace ma guerra”, pretese Nietzsche per “i pochissimi” suoi consanguinei. E se oggi fa così male ricordarlo, come ricominciare a muovere un arto dopo una frattura, è perché la malattia dell’inerzia, ci ha marciti più di quanto potessimo immaginare.