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Il filosofare di Platone, scriveva Manara Valgimigli, è un “cantare per incantare” l’anima dell’uomo, che al cultore di sapienza chiede una sola grazia: di ispirarle il senso del vivere e del morire, di rivelarle il verso del cominciare e del finire umano. Una delle considerazioni platoniche che più hanno impressionato, nei tempi, quanti hanno ascoltato II racconto di Er è quella secondo cui tutto ciò che ci accade l’abbiamo deciso ‘noi stessi’ – con le parole della sapienza d’Oriente: ‘giusto è per ciascuno tutto quello che gli succede’. Libertà e necessità coincidono, l’ordine dell’essere è identico all’ordine della volontà – e, su questa identificazione, Platone precorre Spinoza e Nietzsche. Non è il dèmone a scegliersi l’anima, ma è l’anima a scegliersi il ‘proprio’ dèmone. Significativamente, questo mistero, del nesso tra anima individuata e anima individuante, in cui si raccoglie II racconto di Er, sigilla il verbo platonico sulla giustizia (sull’uomo giusto che ‘si ingrandisce’ a forma, perché gli è congenere, dello Stato giusto), affidato a una scrittura che ci comunica, afferma Lorenzo Giovannacci, “una delle più nobili e profonde espressioni dell’anima pagana”.
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