Descrizione prodotto
Questa edizione de La disintegrazione del sistema (il folgorante pamphlet politico che Franco G. Freda scrisse nel 1969, in cui si prospettava la possibilità di un fronte comune ‘rosso’ e ‘nero’ per l’annichilimento del sistema borghese) è integrata da una raccolta di testi composti dall’autore tra il 1963 e il 1990. E sono proprio tali scritture ‘d’occasione’ – note di lettura, presentazioni editoriali, lettere di precisazione (tra cui anche una sprezzante risposta al filosofo Gianni Vattimo) – a rappresentare tra i migliori esercizi di stile di Freda. Le “idee senza parole” trovano la loro metamorfosi in vita, in voce, il loro suono, ed è questo: “Noi dobbiamo collocarci sulla linea che segna il confine tra cielo e terra, in cui cielo e terra si confondono: in cui l’illuminante e l’illuminato danno vita al luminoso.”
Forse un libro “imperdonabile”, per come intendeva Cristina Campo l’aggettivo e come lo definisce Anna K. Valerio, che gli dedica queste parole: “Di solito, la vita è vita e il libro libro: moti divergenti, che non sanno integrarsi – e il libro non è altro che un’occasione per evadere dalla vita, per dimenticarla, per eluderla, per illudersi. Qui no: ecco perché la Disintegrazione è un libro “imperdonabile”. Già basterebbe lo stile, fredianamente perfetto, rigoroso, vigoroso, spiccato, ‘dorico’, senza nulla di troppo (come prescritto dal frontone di Delfi, vera patria dell’autore). Ma “imperdonabile” è soprattutto l’intenzione, dura, intransigente, di volgere in prassi la teoria, o, per dirla più mondanamente, di razzolare così come si è predicato. Se non è un’istigazione alla vita, a trasformare per il tramite della persuasione la vita, la parola scritta è viltà, vanità. “La più vera ragione è di chi tace”– così ragionava Montale, che di scritture si intendeva, con un proprio demone inespresso. E, soprattutto, notava: “ciò non vede la gente nell’affollato corso”, che è un altro modo per ribadire l’eterno pessimismo dell’anima disincantata (sostituisco in questo modo l’aggettivo ‘differenziata’, ormai contaminato dall’abuso), altrimenti e così magnificamente espresso in questa conclusione tremenda, una vera e propria strage di luoghi comuni: “ed io me ne andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”. Non me ne vogliano positivisti e politologi, ma quando penso alla Disintegrazione mi vengono in mente i poeti, i più antiborghesi di tutte le biblioteche, antiche e nuove (se me ne intendessi, potrei pensare forse ai musicisti, come l’autore del disegno di copertina, “Omaggio a Skrjabin”). Perché questo testo è temerario fino al lirismo e inafferrabile come il più remoto bisbiglio di segreti iniziatici, che solo un orecchio d’eccezione sa (e può e deve) udire. Non ci sono slogan, né millanterie, né facile pathos accattivante, né compromessi, né scaltrezze estetizzanti, né ruffianeria, né semplificazioni indebite di cose ardue e quasi ineffabili. Chi è come l’autore – magnanimo come l’autore, antiindividualista come l’autore, coraggioso come l’autore, deciso come l’autore, lucido come l’autore (aggiungerei bello, quale sintesi estrema di tutto ciò, ma è un rischio, me ne rendo conto) – penetrerà senza difficoltà i luoghi ardui del testo, lo seguirà in quelli impervi, facilement, facilement. Chi cerca invece lo stupefacente di glosse erudite è meglio che dirotti la propria curiosità su altri volumi, più alla mano, più umani (dove umano non è l’aggettivo-cardine di Menandro, ma non farcela, non sentirsela, intimorirsi, essere impacciati ed esitanti). La Disintegrazione è aumana e dà le vertigini a chi è abituato a non spiccare voli né salti, a chi è integrato nel proprio tempo e con esso “rapitur”. Perché impuntarsi a volerla leggere a tutti i costi, e costringersi a dover mentire, dopo, dato che non la si può sopportare? Ce ne sono tante di esercitazioni letterarie rassicuranti, non so, Il sangue dei vinti, per esempio, o qualche bignamino sui diciotto punti di Verona, o i diari infelici dei reduci, o i saggi di innumerevoli marxisti zelanti e le diatribe dei disadattati per finta… La Disintegrazione non è ipotesi, ma progetto. Non è memoria, ma rievocazione. Non è analisi, ma sintesi. Ed è preludio, non conclusione. Preludio di che? – chiederete, con una smorfia malignetta e insinuante (che vorrebbe sottintendere: “preludio delle stragi, delle macellerie criminali?”). No: preludio del “grande stile” in politica (cioè nell’architettura della vita) “qualunque cosa significhi” – come dice il colonnello hemingwayano di Di là dal fiume e tra gli alberi parlando con il proprio amore dell’Amore, altra faccenda impervia e deliziosamente audace. Mi fermerei qui, perché mi pare sia meglio non esagerare con le parole d’inchiostro e concentrarsi invece sul “verbum caro factum”, sulla parola fatta carne. E’ più onesto così e c’è più da fidarsi.”