Descrizione prodotto
Il vizio di antologie e storie della filosofia è di presentarci i pensatori con una carrellata superficiale, senza porre la minima attenzione a certe sorprendenti sincronie e ad altre, ancor più notevoli, fratellanze d’anima. Dobbiamo ricordarcelo, invece, che l’Ottocento aveva, insieme, Leopardi e Schopenhauer. Tra loro ci fu un significativo dialogo “senza parole”, oltre il chiasso che si faceva intorno. Leitmotiv: il pessimismo esistenziale, la convinzione che il male tenga l’uomo tra le grinfie, male che si esprime come caducità, fragilità, erranza (quel girovagare mesto del pastore dell’Asia appeso all’incanto di un raggio di luna). Ma, accanto a questo “pensiero dominante”, molte e varie sono le verità di cui ragionano Schopenhauer e Leopardi, sconfinando dalla schietta contemplazione del vuoto al terreno virtuoso della politica. Grandi reazionari, entrambi. Convinti di abitare un secolo mortificato dalle masse.
Giustamente Schopenhauer rileva che in Leopardi non c’è tanto, o solo, il lamento, pur divinamente accordato: c’è anche lo scherno. Così nel pensatore tedesco: quanto sprezzo per quello che amava chiamare, con epiteto poco mondano, “canagliume democratico”! Entrambi trovarono un punto di coincidenza emotiva nell’attrazione per la bellezza della manifestazione, per il “grande stile”, potremmo dire ricordando l’assillo nietzscheano, che è la soluzione esistenziale di ogni animo di artista. Disse dell’Italia, Schopenhauer: “di nuovo io passeggio nella piazza meravigliosa, popolata di statue: di nuovo io vivo tra la famigerata nazione, che ha volti cosi belli ed animi così cattivi.” E la bellezza sapeva farsela bastare, con una grazia quasi buddica. Non a caso De Lorenzo chiude il suo notevole excursus nel segno di Gotamo Buddho. [Anna K. Valerio]
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