Descrizione prodotto
Da Reykjavik a Benares: questa l’estensione dello spazio geografico degli Indoeuropei. E l’intenzione del loro universo interiore, la destinazione del firmamento speculativo degli Ariani? La espone, nella sua sintesi denominata Religiosità Indoeuropea, Hans F. K. Günther. Se provassimo a definirla in termini brevissimi, diremmo che, presso gli Indoeuropei, la religiosità intesa come intuizione del divino coincide con la loro complessiva aspirazione alla forma-formante - der Wille zur Gestaltung -, in cui si intersecano l’inclinazione dell’indole ariana alla introspezione – Innenschau – e la sua vocazione alla contemplazione del lontano – Weitenschau. Se intendessimo invece tracciarla in termini brevi, perché questo preambolo editoriale descriva una traccia di lettura di Religiosità Indoeuropea, lasceremmo alle parole stesse dell’Autore il compito di segnarla. “La religiosità indoeuropea – scrive il Günther – non nasce da una qualche forma di timore, timore di un Dio o timore della morte. Un timore del Signore non sarebbe potuto nascere perché l’Indoeuropeo non si sentì mai cosa creata, ‘creatura’ di una qualche divinità né concepì il mondo come creazione. [...] Il rapporto di sudditanza e sottomissione tra l’uomo e il Dio è caratteristico dei popoli di lingua semitica. [...] Quando si svaluta ‘questo’ mondo e si esalta l’altro’ mondo ad eterno bene, si esce dai confini della religiosità indoeuropea. La religiosità indoeuropea è religiosità di questo mondo. [...] Siamo abituati a considerare vera religiosità solo quella ultramondana e a vedere in una diversa attitudine religiosa alcunché d’inferiore, d’immaturo, o appena il grado iniziale di una più perfetta religiosità. E’ cosi che i concetti giudaico-cristiani ci impediscono di riconoscere la grandezza della religiosità indoeuropea. [...] Gli Indoeuropei sono ‘figli del mondo’ [Weltkinder] nel senso che ‘questo’ mondo, nella sua ricchezza, offre loro sufficienti possibilità di venerare il divino.” L’Ariano è l’uomo dall’alto sentire, che interroga con attenzione il Destino, ‘provocandolo’ con fermezza e tenacia e dimostrando di essere, lui superbo, all’altezza di esso e a esso conforme. Davanti al Destino, “essere pronti è tutto”, insegnava Shakespeare e confermava Spengler: The readiness is all; in Bereitschaft sein ist alles. Non Provvidenza, quindi, ma Destino, non redenzione dal peccato, ma fedeltà al Destino, giacché “la religiosità indoeuropea non è la religione della paura, della umiliazione, della mortificazione di sé, ma la religiosità di chi vuole onorare la divinità stando eretto in mezzo alla fatalità della vita umana per l’onore della divinità che è in lui. E’ proprio dai migliori che gli Dei esigono che diano buona prova di sé innanzi al Destino.”