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«Occorre operare da partigiani ovunque vi siano partigiani» esortava Napoleone, nel tentativo di rispondere alla guerriglia spontanea che da anni, in Spagna, teneva in scacco la più imponente e perfezionata macchina militare dell’epoca.Napoleone e i suoi contemporanei non potevano saperlo, ma con quei guerrilleros aveva fatto irruzione sulla scena della storia la figura che ne avrebbe rivoluzionato il corso. E di questa figura l’analisi tuttora più stringente è quella che Carl Schmitt sviluppa nel 1962 in Teoria del partigiano. Dove anzitutto precisa, unendo il rigore del giurista alla penetrazione del filosofo, i caratteri distintivi del combattente «irregolare», ossia di colui che «si è posto al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra controllata e circoscritta per trasferirsi in un’altra dimensione: quella della vera inimicizia». Muovendo dunque dal remoto progenitore spagnolo, Schmitt illustra l’inarrestabile evoluzione del «partigiano»: dalle teorie di Clausewitz al rivoluzionario di professione di Lenin alla «nazione in armi» di Mao, fino al duplice terrorismo nell’Algeria ancora francese. Ma si può dire che solo oggi siamo in grado di misurare la pervasività planetaria del fenomeno. Tanto basterà a far capire come la Teoria del partigiano sia un testo indispensabile per capire il presente – ossia l’epoca caratterizzata da quella che Schmitt chiama, con una formula definitiva, «l’inimicizia assoluta».
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